Leonid, da tutti soprannominato Pamfir come suo nonno, è appena tornato nel paesino della Bucovina dove viveva con la moglie e il figlio Nazar. Siamo nell’Ucraina occidentale, al confine con la Romania, una propaggine d’Europa sospesa tra l’Est ancorato a una società immutabile e un Ovest visto come destinazione di attività illecite, punto di arrivo di un contrabbando che spesso è l’unico sostentamento possibile della comunità. Pamfir torna a casa dopo anni passati a lavorare all’estero, provando a cancellare un passato che presto tornerà a presentare il conto. Ad aspettarlo la moglie devota e un figlio cresciuto in fretta, lontano dagli occhi e dal controllo paterni. Pamfir è rientrato per un paio di settimane, per abbracciare i suoi cari e per assistere al carnevale locale, una festa dal sapore tribale in cui ci si veste di paglia e si indossano maschere animalesche. La festa sarà l’occasione della resa dei conti che Pamfir dovrà affrontare dopo essere ripiombato, per salvare il nome e l’incolumità del figlio, nei loschi giri di malaffare che governano immutabilmente la zona.
Il giuramento di Pamfir, opera prima di Dmytro Sukholytkyy-Sobchuk, passato alla Quinzaine 2022 e poi al Torino Film Festival, è il racconto di un personaggio sfaccettato e del faticoso e travagliato rapporto con la sua terra d’origine. Quel lembo di Ucraina – lontano dagli attuali venti di guerra (il film è comunque girato prima del conflitto) ma attraversato da una perenne inquietudine fatta di violenza e sopraffazione – è la rappresentazione terrena di una brutalità sociale, appesa alle liturgie ortodosse della chiesa locale e al potere assoluto di una criminalità ancestrale e senza scrupoli da cui Pamfir sembra destinato a essere schiacciato: due realtà inscalfibili, incuranti delle necessità e delle aspirazioni dei singoli. Pamfir è un uomo deciso a difendere la solidità apparente della sua famiglia, si è rifatto una vita lontano per permettere un futuro ai suoi cari: ma le onde del destino si propagano come i cerchi di un sasso gettato in uno stagno. Non solo ogni azione ha la sua conseguenza ma ogni conseguenza porta con sé un’inevitabile dannazione. Non è una questione di colpe – passate e presenti – di padri e figli, ma l’ineluttabile impossibilità di salvezza e redenzione.
Sukholytkyy-Sobchuk racconta questa parabola di sconfitta umana con solenne semplicità. L’uso del piano sequenza dona al film un tono reiterato, a tratti ipnotico; la descrizione antropologica della comunità sfiora il genere senza cadere (quasi) mai nei tranelli del canone. Il giuramento di Pamfir è una caduta esistenziale tutta terrena, in cui il lato psicologico – se non assente – è assorbito dalla concretezza di una piramide sociale governata dalla brutalità, dall’implacabile relazione di causa ed effetto che conduce alla rovina. Il rischio è un approccio fin troppo programmatico al racconto; un asservimento del fluire della storia allo schema preconcetto in cui i personaggi – e le loro vite – sono costretti al fallimento; uno sguardo asciutto che sconfina nella freddezza invece che nell’empatia. E se lo stile sembra guardare – per il lucido pessimismo, per la capacità di descrivere con pochi elementi, per il rigore della messa in scena – agli esempi migliori del cinema dell’Europa orientale (da Mungiu a Loznitsa), la forza allegorica del film, la sua insistente carica simbolica che culmina nella scena ferina del carnevale, non sempre si dimostra all’altezza delle ambizioni rischiando in più di un momento di appesantire il racconto invece che elevarlo. Il giuramento di Pamfir è un esordio solido ma dagli esiti non sempre felici e quella di Sukholytkyy-Sobchuk è una voce che deve trovare una sua precisa definizione, una compiutezza capace di dare un senso più profondo al materiale incandescente al centro della sua narrazione.
Un padre di famiglia torna a casa, ed è costretto a rimettersi in discussione e a giocare sporco per salvaguardare i propri cari. Una storia di contrabbandieri di confine immersa dentro gli usi ed i costumi di una società ancorata alle antiche suggestioni di un passato in cui religione ed eresia sapevano fondersi in modo inestricabile.