È una storia di dedizione al lavoro, Il medico di campagna. Una storia in cui Thomas Lilti, uno dei rari cineasti che nella vita esercita anche la professione medica, dopo aver narrato le vicissitudini di un ospedale nel suo film Hippolite, torna ad accostarsi a quel mondo da uno sguardo meno convenzionale, meno “cittadino”. È infatti Jean-Pierre (Fronçois Cluzet) – poi affiancato da Nathalie (Marianne Denicourt) – la figura centrale del film: un medico di campagna (come suggerisce da subito il titolo), uno di quei dottori vecchio stile, che lavorano a domicilio, che passano di porta in porta per visitare una comunità di affezionati e fedeli, che sembrano avere una conoscenza vastissima e un rimedio per ogni cosa. E la comunità è davvero l’essenza attorno a cui ruota la vita di Jean-Pierre Werner, che per questa sorta di grande famiglia diventa ben più di “colui che cura le malattie”: diventa figlio, fratello, amico; diventa una guida e un supporto, spesso anche psicologico (come quando si “improvvisa” psicologo per chi ha subito un aborto). È un medico che mette al primo posto gli altri, che – come lui stesso dichiara – dedica la vita ad una lotta, probabilmente eterna, con la morte. Ma nel farlo, dimentica se stesso.
Dietro la lunga e – va detto – alquanto stucchevole carrellata di pazienti da visitare, ognuno con le sue idiosincrasie e i suoi acciacchi, c’è infatti un uomo, Jean-Pierre. Un uomo che, al di là della sua ampia e approfondita conoscenza scientifica della malattia (che generalmente ha tutte le armi per debellare), proprio dalla malattia stessa è messo alla prova: fin da subito gli viene diagnosticato un tumore all’emisfero sinistro del cervello. È una patologia grave, che tuttavia, per lungo tempo, si rifiuta di affrontare direttamente (sceglie in un primo momento di non sottoporsi a radioterapia), quasi come se non curarsi di un problema, potesse significare non averlo.
E l’assoluta negazione è ciò che lo spinge inizialmente anche a non accogliere Nathalie – medico inviato ad affiancarlo, in modo che possa riposare e prendersi cura di sé – ma a cui lui si rifiuta strenuamente di chiedere aiuto. Lei non sa, non conosce il posto, non conosce le persone, e perfino gli animali le sono ostili (come le oche che la inseguono nei cortili). Eppure, ben presto, comincia a cavarsela da sola, comincia a essere richiesta dalla gente del posto (anche dai ragazzini più vergognosi), comincia a ottenere la fiducia di Jean-Pierre. Un avvicinamento, il loro, che passa attraverso momenti puramente medici: un check up, e poi ancora un’ispezione di alcune lastre, dopo una caduta. L’uno può prendersi cura dell’altro, letteralmente, ma – finalmente – anche nel senso più ampio del termine. E così, in conclusione, si arriverà alla condivisione del dolore e – solo in questo modo – a trovare la forza per debellarlo.
È in quest’umanità legata alla scoperta d’essere “mortali” e della necessità di fare squadra nei momenti di difficoltà, che risiedono le scene più belle e delicate de Il medico di campagna. Scene ben portate avanti dalla recitazione di Fronçois Cluzet, eppure esageratamente soffocate dal “mestiere”, dalle visite, dalla serie di pazienti. Il film finisce in questo modo per arenarsi in sequenze lunghissime, che lo rallentano (come la festa nella seconda metà della pellicola, per di più accostata ad una tremenda cover di Jeff Buckley in versione country-corale), pur avendo in nuce un’ottima analisi tutta umana.
Tutti gli abitanti di un paesino di campagna possono contare su Jean-Pierre, il medico che li ascolta, li cura e li rassicura giorno e notte, sette giorni su sette. Malato a sua volta, Jean-Pierre assiste all'arrivo di Nathalie, che esercita la professione medica da poco tempo e ha lasciato l'ospedale dove lavorava per affiancarlo. Riuscirà ad adattarsi a questa nuova vita e a sostituire colui che si ritiene insostituibile?