Uscito quasi due anni dopo la circolazione nei festival (a Cannes e a Torino, tra gli altri), Il patto del silenzio è un breve film di un’esordiente, la belga Laura Wandel, che dimostra inequivocabilmente come due sole idee, una stilistica, l’altra narrativa, possano permettere di realizzare un piccolo capolavoro di genuina semplicità.
Tutto è incentrato su due fratelli, Nora, sette anni, e Abel, di poco più grande. Abel è vittima degli atti di bullismo di alcuni compagni particolarmente spietati; Nora è la dolente testimone di questa situazione, fino a quando decide di rivelare tutto al padre che ogni mattina li accompagna a scuola (Karim Leklou, o meglio, la sua pancia, ma il motivo si capirà strada facendo). Di conseguenza, Abel si allontana da Nora perché la considera una spiona, per poi diventare a sua volta un bullo quando inizia a prendere di mira qualcuno ancora più debole di lui. Nora invece comincia a detestare il fratello, diventato nel frattempo un imbarazzante ostacolo al suo tentativo di integrarsi all’interno della classe.
Non si tratta dell’ennesimo film sul bullismo, perché qua c’è una sensibilità maggiore e tangibile. C’è qualcosa di diverso. Per come è narrato e per ciò che esibisce. Prima di tutto, ha una struttura ciclica, perché inizia e finisce con un abbraccio ― come si vede anche dalla locandina ufficiale del film ― e i due teneri eventi sono molto diversi tra loro, poiché tra l’uno e l’altro, in appena un’intensissima ora e dieci di durata, c’è tutto un mondo di traumi, attraversamenti e nuove consapevolezze.
Il valore aggiunto è però la scelta stilistica di osservare rigorosamente ciò che succede, pur occultando il contesto in cui si verifica. Laura Wendel assume una dimensione talmente intima da risultare interiore, in grado di raccontare tutti i mutamenti di stato assumendone pienamente il riflesso e gli effetti. La macchina da presa si incolla al volto della piccola Nora per specchiarsi nelle sue reazioni e alla sua nuca per seguirne fedelmente le traiettorie nel cortile della scuola e restituire indirettamente le vessazioni costanti di cui è vittima il fratello. Nora è interpretata dalla sorprendente Maya Vanderbeque, esordiente anche lei, sulla quale è stato costruito un superbo lavoro mimetico per sfruttare la sua spontanea naturalezza. È il personaggio di Nora, infatti, il fondamento che garantisce la dignità narrativa a tutto il resto, a tutto ciò che la circonda, fratello-vittima compreso: lo spettatore percepisce l’intera vicenda condividendone la porzione di spazio da lei occupata e irradiandosi rispetto a tutto l’ambiente, altri personaggi compresi (anche il padre e la sua pancia, quindi: il suo volto si vede soltanto quando l’uomo si avvicina alla figlia). Il resto è un enorme, totalizzante fuoricampo, che diventa percepibile solo quando la bambina condivide il suo spazio monadico con gli eventi decisivi del film.
[attenzione: spoiler!] C’è una sola soggettiva in tutto il film e compare sintomaticamente nel cortile, durante una pausa della mosca cieca a cui Nora sta giocando con le compagne: un’unica soggettiva che sospende per un solo istante il flusso in continuità delle immagini, per sottolineare l’autentico punto di non ritorno sul piano della storia, cioè il momento in cui Abel è inserito di forza dai bulletti all’interno di un container dell’immondizia. Una soggettiva a cui la bambina si sottrae subito dopo, calandosi nuovamente la benda sugli occhi ed eludendo in questo modo il problema, ma narrativamente si tratta di una cesura che accompagna un ribaltamento della prospettiva nella protagonista, prima (della soggettiva) testimone preoccupata delle sorti del fratello, dopo infastidita dalle sue azioni e dalle umiliazioni subite che le causano l’alienazione della simpatia delle compagne.
La regista non tende a identificarsi con i personaggi e la materia trattata, ma nella melma bulbosa del bullismo s’immerge completamente, condividendo con lo spettatore le drastiche conseguenze del racconto e i limiti dell’orizzonte della piccola Nora, lacerata tra l’affetto impotente per Abel e la frustrazione di non riuscire a integrarsi tra i coetanei a causa dell’imbarazzo suscitato dalla situazione. A livello esteriore, Il patto del silenzio ricorda il cinema dei Dardenne, ma è solo una suggestione, perché i Dardenne puntano a sollecitare la relazione tra soggetto e ambiente, Wendel invece isola il personaggio in una bolla di solitudine sconfortata. Una solitudine che vuole spezzare i confini dell’inquadratura alla ricerca di un legame affettivo tra i personaggi, sciogliendo progressivamente la tensione dovuta alla sofferenza individuale in un abbraccio finale che ha il sapore della riconciliazione definitiva con gli altri per permettere a se stessi di trovare la giusta collocazione nel mondo.
La piccola Nora scopre la scuola, il trambusto del cortile durante la ricreazione, le regole dell'istituto, le lezioni e la necessità di adattarsi e fare amicizia. A tutto questo si aggiungono i problemi di Abel, suo fratello, bullizzato da alcuni dei ragazzi più grandi.