Aaron Sorkin

Il processo ai Chicago 7

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Il processo ai Chicago 7 è chiaramente un film sull’America di oggi: per il rimando alla libertà di manifestazione e di dissenso, per il collegamento fra le proteste del movimento Black Lives Matter contro la violenza della polizia e i disordini di Chicago nell’agosto 1968 (quando le manifestazioni di protesta contro la guerra in Vietnam durante la convention democratica furono duramente attaccate dalla polizia), ma soprattutto per la messinscena esplicita - fin dalla scena del cambio di ritratto del presidente Johnson con quello di Richard Nixon, gennaio 1969 - alla guerra civile in corso negli Stati Uniti da decenni, con la polarizzazione netta e superficiale fra democratici e repubblicani, fra il paese degli Stati blu e quello degli Stati rossi, fra i liberal e i tradizionalisti, fra la sinistra considerata radicale e un insieme vasto e indefinito di forze moderate che fa fede ai sentimenti originari della nazione.

«Voglio tornare all’America in cui sono cresciuto», dice all’inizio del film il neo ministro della giustizia dell’amministrazione Nixon, John N. Mitchell, dal cui risentimento verso il suo predecessore, il democratico Ramsey Clark (Michael Keaton), e in generale verso la sinistra americana, nasce il processo ricostruito da Sorkin: sette, anzi no, otto, poi effettivamente sette e alla fine solamente cinque, militanti rivoluzionari dell’epoca accusati di cospirazione un anno dopo i fatti di Chicago e difesi dall’avvocato William Kunstler (Mark Rylance).

Sorkin, che ha scritto la sceneggiatura nel 2007 ed è poi passato alla regia su invito di Spielberg (qui produttore), usa la camera processuale come una mappa visuale dell’ideologia americana, con la sinistra esposta nelle sue sfumature di pensiero e azione (gli hippie all'estremità del banco degli imputati, pacifisti e democratici verso il centro e le Pantere nere coinvolte ma estranee al processo) e la destra presentata come un blocco pressoché monolitico, con giusto la figura del pubblico ministero Richard Schultz (Joseph Gordon-Levitt), servitore dello Stato che agisce più per obbedienza che per convinzione, a sfumare il ritratto e a legarsi per età e toni pacati al pensiero liberal (e talvolta ipocrita) del più cauto fra gli accusati, Tom Hayden (Eddie Redmayne). Una modalità di rappresentazione che rende evidente l’opposizione fra i due mondi e marca in maniera netta e, sì, manichea una frattura che già allora andava delineandosi e che da almeno due decenni è stata ampliata da politica e media, con il blocco repubblicano autorappresentatosi come unico – l’America dei giusti – e quello liberal incapace di farsi capire e per questo raccontato come un insieme variegato ma unito dal medesimo, presunto obiettivo: quello cioè di insegnare agli altri come vivere, e naturalmente tramare contro l’America.

Il processo ai Chicago 7 è ambientato nello stesso periodo raccontato da Vizio di forma e C’era una volta… a Hollywood, quel 1969 che a ritroso va considerato la vera cesura del dopoguerra (a ripensarci era così anche in Mad Men): la fine degli anni ’60, come dice ancora Mitchell, e la definitiva sconfitta di una rivoluzione almeno culturale («Non ho tempo per le rivoluzioni culturali», dice Hayden, «distolgono il tempo dalla rivoluzione vera), a seguito di una vittoria di Nixon che sancisce la presa di potere dei repubblicani e soprattutto l'avvio di un'altra narrazione ufficiale della storia americana. Una storia non più rivoluzionaria, come sostiene l'hippie Abbie Hoffman (Sacha Baron Cohen) citando addirittura Lincoln (il «Capitano, mio capitano» di Whitman e dell’Attimo fuggente), ma di principi sani e infantili: la storia, per l'appunto, di un popolo infantile. 

The World is watching» si sente urlare più volte nel film da parte della folla: Sorkin usa il processo per rappresentare una guerra soprattutto dialettica – di parole, di opposte retoriche, di nomi e cognomi – con la quale esporre letteralmente le tesi di due Americhe contrapposte. Da qui la volontà di vedere nella Storia soprattutto un patrimonio di volti, di biografie, di destini da raccontare e di considerare la scrittura come la vera forza trainante del film, la spinta che dà ritmo al montaggio: dal gioco di battute concatenate della sequenza iniziale, ai flashback delle violenze di Chicago durante gli interrogatori, all’idea generale di una democrazia che nella pratica del processo agisce sempre come spettacolo (nel film c’è sempre qualcuno che si espone, che recita, che parla, che interroga, risponde, manipola, e qualcun altro che guarda: il giudice, la giuria, il pubblico, gli agenti dell’FBI presenti come “osservatori” nell’incontro fra Kunstler e Clark...) Per lo stesso motivo, da regista Sorkin non ci va troppo per il sottile e mescola senza patemi storia e finzione, documento e invenzione, stand-up comedy e dati processuali, empatia verso i buoni e scherno verso i cattivi… Se si pensa che sui fatti di Chicago esiste un film come America, America dove vai?, viene lo sconforto.

Eppure la sfrontatezza di Il processo ai Chicago 7 serve a costruire nel corso delle due ore di film – che volano, sia chiaro – il terreno finalmente comune fra le due Americhe, la sola forma di narrazione riconosciuta da entrambi le parti: la retorica dei morti e dei sacrificati nel nome della nazione. E pazienza se i morti del Vietnam di allora – implicitamente collegati ai morti di oggi – siano per alcuni vittime e per altri martiri del sistema: per i morti ci si alza sempre in piedi.

Dunque il riferimento a L’attimo fuggente non è così gratuito: nel ’59 alzarsi in piedi per uno sconfitto significava ancora spiccare il volo, issarsi contro il potere, per quanto da una posizione non certo sfavorevole; dieci anni dopo, invece, sarebbe diventato un gesto di protesta tanto emozionante quanto impotente. Una rivolta che nascondeva una vittoria dietro una sconfitta, e viceversa.

Il processo ai Chicago 7
Usa, 2020, 129'
Titolo originale:
The Trial of the Chicago 7
Regia:
Aaron Sorkin
Sceneggiatura:
Aaron Sorkin
Fotografia:
Phedon Papamichael
Montaggio:
Alan Baumgarten
Musica:
Daniel Pemberton
Cast:
Alex Sharp, Ben Shenkman, Eddie Redmayne, Frank Langella John Carroll Lynch, Jeremy Strong, Joseph Gordon-Levitt, Mark Rylance, Sacha Baron Cohen
Produzione:
DreamWorks
Distribuzione:
Lucky Red (dal 16 ottobre Netflix)

La storia del processo, tenutosi nel 1969, che il governo degli Stati Uniti intentò contro otto attivisti (poi diventati sette nel corso del dibattimento) di sinistra, accusati di aver causato rivolte di massa nella Convention dei Democratici a Chicago del '68.  Gli accusati sono Abbie Hoffman, esponente della controcultura americana dal carattere irascibile e con precedenti penali; il suo amico e compagno di lotta Jerry Rubin; il leader delle Panter nere Bobby Seale; il giovane del fronte democratico Tom Hayden e il suo collaboratore John Froines; il pacifista David Dellinger e Lee Weiner.

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