La strada intrapresa dalla Disney negli ultimi anni è ormai evidente a tutti: guardare avanti con i marchi di più recente acquisizione (Star Wars, Marvel); consolidare le saghe animate di casa Pixar con svariati episodi; aggiornare i grandi classici di un tempo con versioni live action.
Il ritorno di Mary Poppins potrebbe quindi a prima vista risultare un unicum, dal momento che si tratta di un sequel non animato. Eppure bastano pochi minuti per accorgersi del grande inganno celato dietro l’ultimo film di Rob Marshall, che si impegna in tutto e per tutto a firmare un remake non dichiarato dell’indimenticabile operazione del 1964 spacciandolo per un secondo capitolo delle avventure della tata più magica e severa del grande schermo.
Lo schema narrativo proposto è infatti identico all’originale: genitori troppo impegnati per dar retta ai loro figli, dimentichi di cosa voglia dire essere bambini, però capace di tornare a gustare l’emozione e la spensieratezza dei buoni sentimenti. Il film lo dichiara in maniera esplicita costringendo i personaggi a portare indietro le lancette del tempo e ad abbassarsi per attraversare porticine minuscole. Tornare sui propri passi e farsi piccoli non sono, quindi, prerogative del solo sguardo, ma diventano un passaggio narrativamente fondamentale per il racconto.
Marshall, probabilmente molto influenzato dalla produzione, preferisce non rischiare. Cambia locations e personaggi, ma non si allontana minimamente da quanto già visto: invece che riordinare la cameretta, i ragazzi inizieranno a rapportarsi con la tata facendo un bagno magico; invece delle passeggiate negli affreschi, la sequenza animata prevede un viaggio in un vaso decorato; invece del ballo degli spazzacamini, tocca ai lucernai; invece dell’aquilone finale, è la volta dei palloncini colorati; invece del pazzerello zio Albert, conosceremo (per un’unica sequenza) l’altrettanto stravagante cugina Topsy…
Se da un punto di vista teorico questo approccio potrebbe risultare persino curioso grazie al dialogo che instaura tra forma e contenuto, messa in scena e racconto, la delusione è proprio legata allo spettacolo in sé. Il ritorno di Mary Poppins è basato su un cinema d’altri tempi, proprio come lo sono gli indimenticabili titoli di animazione che hanno segnata la Disney e che poco alla volta stanno uno per uno tornando (Cenerentola 2015; Il libro della giungla 2016; gli imminenti Dumbo, Aladdin e Il re leone…). Eppure, se in questi casi l’aggiornamento digitale potrebbe risultare in qualche modo indovinato (seppur sicuramente non necessario, ragioni di mercato a parte), Il ritorno di Mary Poppins non incanta perché l’originale è ancora oggi talmente fresco e innovativo da non poter essere aggiornato con un semplice remake mascherato da sequel.
Marshall chiede al pubblico di mettere in pratica il messaggio del suo racconto, ritrovando quello stesso sguardo infantile invocato da Mary Poppins per apprezzare il film… Ma è il suo stesso lavoro a prendersi troppo sul serio, privandosi della giusta dose di istintiva irrazionalità che caratterizza l’infanzia (basti pensare alla complessità delle linee melodiche delle nuove canzoni, decisamente spinose per un pubblico di bambini). È tutto preciso, previsto, calcolato e prevedibile. Non si discutono gli impianti coreografici, quelli scenici, le sequenze animate e il successo di una Emily Blunt funzionale e sicura di sé nel non facile ruolo di erede al trono (il rischio di lesa maestà era dietro l’angolo).
Quello che lascia a bocca asciutta è la mancanza di magia e di meraviglia, come se un vecchio mago riproponesse il solito trucco ormai svelato.
Ambientato diversi anni dopo il primo film, in questo nuovo capitolo Michael e Jane sono ormai adulti e, come tutti, alle prese con dei grandi problemi nella vita. A restituire loro il sorriso, però, sarà ovviamente la magica tata Mary Poppins.