Una scelta radicale, di quelle che o accetti o rifiuti, contraddistingue il film di Francesca Comencini (primo lavoro il premiato Pianoforte, 1984, ultimo il televisivo Django), un biopic di taglio inusuale che diventa qualcosa di più, dato anche il lato autobiografico. Padre e figlia, regista e regista, intellettuale ed extraparlamentare: tre aspetti che si mescolano e che si aprono alla storia del cinema, alla storia sociale, al dramma di scavo psicologico più esacerbato.
Immancabile coppola e basette, Luigi Comencini è qui visto attraverso il rapporto cogente ed esclusivo con la figlia. Accantonati moglie, sorelle, amici, parenti, intimi vari, restano qui solo loro due, nei momenti cruciali di un trentennio scandito da luce, disperazioni, gioie, malattie e naturalmente la pratica del cinema, che è prima di tutto un mestiere da vivere intensamente. Anzi, come esclama il regista (interpretato da un Fabrizio Gifuni che progressivamente, con l'aggravarsi del male, tocca vertici assoluti di introspezione ed espressività minimal) sul set del Pinocchio splendidamente ricreato dalla Comencini, lì bambina e capricciosa comparsa, mentre riprende il suo aiuto che sta sacramentando con alcuni indisciplinati spettatori locali: “Prima la vita, poi il cinema! E se non lo capisci è inutile che lo fai il cinema. Cazzabubbola!”.
La vicenda prosegue con relativa linearità dai '60 agli '80 inoltrati, da un'infanzia protetta e già sotterraneamente irrequieta dove gli episodi si fanno magia (e il lato fiabesco surreale ogni tanto tornerà) a un'adolescenza fiammeggiante nei '70, tra fremiti rivoluzionari e il buco nero della droga (nelle classi si applaude al rapimento di Moro, per strada disperati stanno male). La figlia – illuminata dal volto intenso e italiano di Romana Maggiora Vergano – si è fatta introversa, cupa e insicura, tra disegni non finiti inneggianti alla lotta armata e lo sprofondare nell'eroina, mentre il padre manifesta i primi tremori della malattia sino a uno scontro di inusitata asprezza: “Se esci non mi rivedrai più per il resto dei tuoi giorni”. “È capire con il corpo: tu ce l'hai ancora un corpo, papà?”. Poi Parigi, gli anni tribolati della cura, la progressiva riscoperta della forza di un rapporto sentimentale mai troncato, la via d'uscita nella pratica del cinema, fino a quando la figlia aiuterà il padre (ancor lucido e motivato) sul set di Il ragazzo di Calabria.
Come ogni resa dei conti con una parte così fondamentale di sé, l'operazione autobiografica di introspezione estrinsecata ha le sue fragilità e i suoi squilibri di misura, ma spariscono di fronte alla sincerità del tutto e alla bellezza di tante scene. Della ricostruzione dei due film abbiamo già detto, ma aggiungiamo anche la felice scelta stilistica del soffermarsi della cinepresa su piccoli dettagli, su espressioni che paiono quasi rubate, con indubbio effetto suggestivo.
E se poi vi stupiscono i tanti spezzoni di cinema che inframmezzano la visione (tra cui un suggestivo Pinocchio del 1911 con Polidor), c'è la spiegazione: sono materiali preziosi che lo stesso Autore recuperò, assieme al fratello Gianni e ad Alberto Lattuada, gettando le basi per la fondazione della prestigiosa Cineteca Italiana di Milano.
Beh, come dice Luigi Comencini/Gifuni: “I film o stanno in piedi o non stanno in piedi”. Questo sta in piedi.
Un padre e una figlia. Il cinema e la vita. L’infanzia che sembra perfetta e poi diventare grandi sbagliando tutto. Cadere e rialzarsi, ricominciare, invecchiare, diventare fragili, lasciarsi andare ma non perdersi mai. Il tempo che ci vuole per salvarsi.