È sufficiente (non) guardare con attenzione il folgorante inizio di I, DanielBlake (il film vincitore dell'ultimo Festival di Cannes) per comprendere le intenzioni cinematografiche di Ken Loach in questo suo ultimo lavoro: uno schermo completamente nero persiste per diversi minuti mentre due voci dialogano in maniera serrata e tesa arrivando in più riprese a sfiorare la lite.
Il contesto, neanche a dirlo, è quello di un uomo - il Daniel Blake del titolo – che quotidianamente combatte con la vita per cercare di stare a galla, provando ad assecondare le rigide costrizioni che la burocrazia britannica gli impone per poter godere dei benefici previsti dallo Stato. Lungo la sua strada Daniel incontrerà Katie, una giovane madre che, seppur per ragioni differenti, si trova nelle medesime condizioni. La strada per un’analisi appassionata dei benefici statali o del lavoro dei servizi sociali britannici era dunque spianata; tuttavia, proprio come testimonia lo schermo nero del prologo, a Loach non interessa mostrare (e/o accusare) i simili cavilli, la povertà tangibile di alcuni quartieri britannici o l’evidente stato di crisi in cui, ancora oggi, una buona parte della popolazione è immerso.
Quello che preme all’autore è invece mettere in scena il disagio intimo epersonale a cui è costretto chi, come i due protagonisti, viene lasciato inesorabilmente a margine di una società sempre più cinica e individualista. In maniera opposta ma complementare, il film segue, da un lato, le vicende di un uomo sessantenne privo di significative relazioni umane, e dall’altro di una giovane madre con a carico due bambini. Due perdenti che, per questa stessa ragione, vengono emarginati da una filosofia di pensiero che non ha più tempo per fermarsi a riflettere e aiutare chi non riesce a stare al passo.
Il messaggio solidale di cui Loach si fa portavoce, quindi, è tanto semplice quanto genuino, mirato a scuotere le coscienze sulla forza dei valori morali da sempre innati nell’essere umano e costantemente messi al bando per diverse ragioni (l’ultima, in ordine cronologico, la crisi economica di cui ancora il cinema continua a parlare).
Detto questo, ha comunque senso interrogarsi su quanto peso abbia, oggi, realizzare un film come I, Daniel Blake. Se infatti Loach non viene meno ai suoi dettami classici, insistendo su una messa in scena lineare e asciutta, è anche vero che spesso finisce per tradirsi semplificando in maniera estrema alcuni passaggi più complessi (la drastica scelta intrapresa da Katie sul finale), lavorando su stereotipi preconfezionati per tratteggiare con ironia i suoi personaggi (Daniel incapace di usare il mouse del computer) e lasciando emergere più del dovuto la sua impronta ideologica. Ecco perché I, Daniel Blake segna un piacevole ritorno sulle scene da parte di Loach dopo il suo annunciato ritiro, ma stenta a lasciare un segno limpido come dovrebbe, rilanciando comunque la sfida a un domani migliore.
Per la prima volta nella sua vita, Daniel Blake, un falegname di New Castle di 59 anni, è costretto a chiedere un sussidio statale in seguito a una grave crisi cardiaca. Il suo medico gli ha proibito di lavorare, ma a causa di incredibili incongruenze burocratiche si trova a dover comunque cercare lavoro, mentre aspetta che venga approvata la sua richiesta di indennità per malattia. Durante una delle sue visite regolari al centro per l'impiego, Daniel incontra Katie, giovane madre single e disoccupata. I due, uniti dagli stessi problemi, stringono amicizia e cercano di aiutarsi e darsi coraggio come possono.