Nel suo film più personale, Il calamaro e la balena, il regista e sceneggiatore Noah Baumbach raccontava il divorzio dei suoi genitori dalla sua prospettiva di adolescente. In quello invece più scritto ed elaborato (o semplicemente più bello), Storia di un matrimonio, affrontava il proprio, di divorzio, da una prospettiva adulta, aggiungendovi il filtro del cinema e in generale di tutte quelle forme di narrazione e rappresentazione che nella vita condizionano l’idea che le persone hanno di sé e degli altri.
Ora, nel suo film più indulgente (ma non meno personale, anche se dedicato alla vita di un attore interpretato da George Clooney, il Jay Kelly del titolo), parla di un altro aspetto della sua vita: il successo e la necessità di mantenere unita una famiglia. Lo fa sia dentro il contesto dell’attuale Hollywood, che è isterica, esaltata e ossessionata dal denaro, sia fuori da essa, in un'Europa (Parigi e la Toscana) vista attraverso la prospettiva americana, dunque turistica, idilliaca, fuori dal tempo e dentro le forme dell’immaginario.

Jay Kelly inizia come un incrocio tra I protagonisti di Altman e il corto di Godard sul set di Un sogno lungo un giorno di Coppola (Une bonne à tout faire, ma chissà se Baumbach lo conosce), con un lungo piano sequenza sul set di un film interpretato da Jay Kelly, prosegue poi come un film di Woody Allen, con un personaggio maturo e realizzato (in Un’altra donna era una docente di filosofia) che incontra dal vero e in sogno figure del proprio passato (e tra rimpianti e malinconie capisce d’aver sempre agito seguendo il proprio interesse), e attraverso il filtro di Allen (anche Harry a pezzi) e pure Wes Anderson (per il modo in cui lo spazio scenico si apre alle spalle dei personaggi affacciandosi su altre dimensioni) arriva al Bergman del Posto delle fragole: al viaggio on the road (in treno da Parigi a Pienza su carrozze rétro anni ’60, poi in taxi gialli anni ’90 come in un brutto film turistico), al bilancio esistenziale, alla celebrazione di una carriera (Jay Kelly giunge in Italia per ritirare un premio in suo onore e stare vicino alla figlia ventenne), al riconoscimento del proprio fallimento (come padre di due ragazze, come amico del suo manager interpretato da Adam Sandler e di un vecchio compagno di corso interpretato da Billy Cudrup) e all'accettazione della finzione in cui ha sempre vissuto (essere sé stesso, qualcun altro o nessuno non fa alcuna differenza, suggerisce in esergo un frase di Sylvia Plath).
Baumbach, che ha scritto la sceneggiatura con l’attrice Emily Mortimer (presente anche in una piccola parte), è troppo intelligente e gira con troppa professionalità per far sì che il suo film scivoli fino in fondo nel ridicolo involontario o “smarmelli” la luce alla maniera di ogni film americano girato in Europa. Se lo fa, di svaccare un poco, è perché sa bene cos’ha tra le mani, che non è tanto (o solo) un modello narrativo ed estetico da americani ricchi in vacanza, ma è proprio l’inconsistenza del mondo di cui parla – il suo mondo.

Non a caso lo si vede in un flashback dirigere lo stesso Jay Kelly, parte integrante di quel sistema per il quale nella vita vera è anche e soprattutto il marito di Greta Gerwig (anche lei presente in una piccola parte), e dunque di quella Hollywood che nel film viene raccontata con facile ironia tra agenti, parrucchieri, uffici stampa, truccatori, aspiranti attrici e significativamente nessun regista, a parte l’anziano mentore del protagonista, ex autore anni ’70, che muore all’inizio e si vede solo in flashback o in sogno alla fine…
Che Hollywood pensi a sé stessa è ovviamente un’ovvietà, e che Baumbach non abbia la cattiveria o la grandezza di Mankiewicz, Wilder o Aldrich pure. Ma il cinema classico contro cui quei registi si scagliavano era a suo modo vero, era il prodotto di un'industria che faceva film e con quei film faceva soldi, mentre oggi, a Hollywood, sembra esserci di tutto (film da iniziare, prove da programmare, contratti da rispettare, beghe da risolvere, drink da servire...) tranne il cinema; tranne i film da pensare e creare.
L’immagine oggi è altro, o meglio è ovunque, come il video di un atto eroico di Jay che diventa virale (e che Baumbach significativamente non mostra), mentre il cinema, anacronistico come le carrozze del treno, non è da nessuna parte, se non nella memoria di chi guarda (la scena dell’atto eroico in piena campagna sembra venire da Il treno di notte di Jerzy Kawalerowicz, anno 1959…).

Al massimo, in Jay Kelly il cinema è il montaggio-tributo per il suo protagonista – fatto con spezzoni di film dello stesso Clooney, a rompere un po’ troppo didascalicamente il confine tra finzione e realtà – a cui però fa seguito un frammento di vita familiare del personaggio stesso, a metà tra il ricordo e il sogno, senza interruzione e distinzione…
Perché oggi, in realtà, nemmeno Clooney ha il tipo di fama da vecchia star di cui si celebra la fine, e questo suo film non si sa bene a chi possa parlare, se non a chi l’ha fatto e a chi è disposto a guardarlo rimpiangendo i fantasmi di cui racconta.
Il popolare attore di film Jay Kelly intraprende un viaggio alla scoperta di sé, analizzando il passato e il presente con il suo devoto manager Ron. Commovente e ironico, si colloca all'incrocio tra rimpianti e trionfi.