Non è facile guardare a Jojo Rabbit senza pensare a occhi una lunga – forse troppo lunga, col rischio così di perdere in originalità – serie di riferimenti. La storia, quella di un giovanissimo figlio della Germania nazista, fedele al partito e alla sua linea più per necessità di omologazione che per sentita credenza, diventa presto, tra classicissime trovate da commedia e battute, una scontata vicenda di formazione, propria di molti coming of age prima di questo.
Impossibile, ad esempio, non sentire una forte vicinanza a Moonrise Kingdom di Wes Anderson, da cui Taika Waititi riprende non solo il rapporto di amicizia-amore tra Johannes, detto “Jojo”, e l’ebrea Elsa nascosta nella sua soffitta, ma anche, talvolta smaccatamente, la scelta cromatica e uno stile registico ben definito, fondato sulla geometria dell’immagine.
È del resto proprio il rapporto con “il nemico” a consentire a Jo Jo di trovare un spazio nel mondo, non più mediato da un sentire distorto, da un volere collettivo, ma da una volontà più individuale e sincera. Elsa, la bambina in carne ed ossa, astuta e matura, sostituisce via via, attraverso l’esperienza reale, l’amico immaginario di Jojo, da lui figurato come un simil-Hitler dal portamento sgangherato. Un personaggio, quest’ultimo, interpretato dallo stesso Waititi, di dubbia collocazione, lontano sia dal portamento di Chaplin, sia dal Martin Wuttke di Bastardi senza gloria, da cui pure il regista neozelandese copia nei toni una delle scene più iconiche, quella del «nein», in uno sfogo parallelo contro il fatto che «il cervello tedesco di Jojo sia comandato a bacchetta».
L’Hitler di Jojo Rabbit non è un comandante ridicolizzato o estremizzato negli atteggiamenti, ma un amico burlone e un po’ goffo: nel tentativo di essere ridicolizzato perde il carattere e il contraltare della sua persona, così come l’esercito nazista sembra più simile, ancora, agli scout di Moonrise Kingdom che a una squadra di addestramento della Hitler-Jugend.
Sulla stessa linea, la questione della razza viene spiegata per mezzo di un accoppiamento tra un ebreo e un pesce, il rogo dei libri paragonato a una ragazzata e l’addestramento militare raccontato come un campo estivo. L’intero film ha dunque un tono sopra le righe fin eccessivo, che a tratti ha in raltà anche momenti interessanti: dai titoli di testa con la versione tedesca di I Want to Hold Your Hand (Komm, gib mir deine Hand) che richiamano più i video storici delle folle urlanti per i Beatles che non le masse hitleriane, alla spassosa scena in cui i saluti e gli “Heil Hitler” si ripetono ancora e ancora, fino a coniare il verbo «heilitlering» («heilhitlerare’).
Non meno di valore, del resto, il personaggio della mamma, interpretata da Scarlett Johansson, unico essere umano dotato di amore, compassione e senso della vita, in un marasma di burattini e fantocci caricaturali.
Jojo Rabbit avrebbe insomma avuto bisogno di meno espedienti comici o grotteschi, in nome proprio di quella semplicità che in definitiva ne caratterizza la morale: citando Bowie, «essere eroi, solo per un giorno», anche soltanto per essersi rifiutati di salutare il frutto nazista della propria immaginazione con un «Heil».
Nella Germania del secondo conflitto mondiale, Jojo Betzler, fiero membro della Gioventù hitleriana, trascorre gran parte del proprio tempo in compagnia del suo amico immaginario Adolf, una versione del Führer adorabile, vitale, motivante. Nella sua completa adesione all’odio nazista, Jojo si infuria quando scopre che sua madre lavora per la Resistenza, e nasconde una giovane ragazza ebrea in soffitta. Con la Germania sull’orlo del collasso, si ritrova a dover affrontare una scelta: aggrapparsi alle sue convinzioni cariche d’odio o abbandonarsi alla propria umanità.