La prima lunghissima ripresa ad accompagnare i titoli di testa (una fluida visione aerea e notturna di Milano della durata di circa cinque minuti) sgombra subito il campo da qualunque dubbio avesse attanagliato chi è entrato in sala pensando di trovarsi di fronte il Favino confuso ma fondamentalmente onesto tipico dei drammi a sfondo sentimentale da lui interpretati. L’ultima notte di Amore, al di là del titolo volutamente fuorviante, è un prodotto insolito che si lega a una recente tendenza del cinema italiano (Lo spietato, Non sono un assassino, Calibro 9 ecc.) per screziare di torbidi umori noir la tradizione poliziottesca, miscelando insieme Fernando di Leo e Jean-Pierre Melville. Uno «spaghetti noir», come lo ha definito in modo piuttosto scontato il suo autore, Andrea di Stefano, attore (Almost Blue, Nine, Vita di Pi ) al suo terzo film da regista (Escobar, The Informer).
L’Amore del titolo è Franco, un poliziotto giunto al suo ultimo giorno di lavoro in Polizia prima della pensione e su di lui, sull’interpretazione di Favino, ruota ovviamente tutta la vicenda, addensando sul personaggio una coltre di cupe nubi temporalesche in una serata approntata inizialmente per una serena e nostalgica festa d’addio. Franco Amore è un poliziotto ordinario, non è un eroe, è un agente che ha fondato la sua intera carriera sul vanto di non aver mai ucciso nessuno. Non è un uomo d’azione, è un uomo d’osservazione: scruta il mondo, in qualche modo lo controlla per tenere a bada i pericoli che può presentare ed è per questo che un patriarca cinese a cui ha salvato la vita da un infarto gli offre di dirigere la security della sua azienda. Amore punta a essere irreprensibile, perlomeno ci prova: è un portatore sano di una certa mentalità italiana, per la quale si sfrutta l’esercizio della propria funzione, ma solo per il bene della propria famiglia. Anche se il concetto di famiglia, in certi ambiti, è ambiguo e talvolta imbarazzante.
Di Stefano sfrutta adeguatamente Favino, costruendogli addosso un personaggio dotato di incoraggiante complessità, stratificandolo, grazie anche alla struttura scelta per narrare la storia. Infatti, il regista romano da anni residente in Francia mischia le carte, confonde le acque, portando sullo schermo una sceneggiatura che inverte i dati di partenza e ribalta le prospettive, lavorando sulla claustrofobia delle situazioni e allestendo una Milano occulta, divisa fra aspirazioni di onestà malgré tout, destini che s’incartano e comunità etniche e regionali mescolate osmoticamente. Per fare questo, opera una destrutturazione della linearità cronologica ancora più ardita di quella della tradizione noir: propone un prologo apparentemente celebrativo dell’ultima sera di lavoro, torna indietro di dieci giorni per mostrare analiticamente un effetto domino che travalica le intenzioni e le aspirazioni e poi si sovrappone al punto di partenza per chiarire in un’ottica differente ciò che in precedenza era rimasto sospeso.
Il paradosso di questa scelta cronologicamente dinamica è che abbaglia circa un’azione che evolve unicamente per le sue drammatiche conseguenze pur rimanendo ancorata soprattutto all’unicità di un luogo decisivo, il tunnel in cui avviene la sparatoria da cui tutto si irradia e scaturisce. Prima ci si crogiola nella speranza di un futuro roseo; dopo, le tenebre appaiono ancora più oscure, le prospettive si chiudono sui personaggi grazie ai teleobiettivi utilizzati dal direttore della fotografia Guido Michelotti, il suono mixato con tecnologia Atmos avvolge le figure, intrappolandole anche sul piano delle sensazioni, oltre che al livello delle situazioni narrate.
Non tutto luccica adeguatamente, sia chiaro. Qualche forzatura nella sceneggiatura appare evidente, ad esempio quando, nella sequenza del ponticello sulla strada, l’apice della tensione che si intenderebbe raggiungere con l’incombente minaccia di due malintenzionati viene mitigato involontariamente dal tempo record nel quale la moglie di Franco Amore ritrova ciò che fino a poco prima sembrava il classico ago nel pagliaio. Oppure nella tirata finale, quando lo stesso Franco legittima di fronte al patriarca cinese la sua volontà di trattenere il bottino. Leggerezze dei film italiani quando affrontano la caratterizzazione di genere, così come ormai è da ritenere abituale il vecchio e irritante vizio di sussurrare parole per aumentare un pathos invece azzerato dall’incomprensibilità di ciò che viene detto.
Peccati veniali di un cinema che ci ha abituato a ben altri e più gravi difetti. Perché nonostante quanto segnalato, L’ultima notte di Amore ha il merito di tenere sempre alta la tensione fino all’ultima inquadratura, in un finale aperto e stuzzicante che potrebbe dire molto e invece significa ancora di più, limitandosi ad accennare un nervoso rècadrage che ricolloca il fato al centro delle dinamiche narrative del genere.
Di Franco Amore si dice che è Amore di nome e di fatto. Di se stesso lui racconta che per tutta la vita ha sempre cercato di essere una persona onesta, un poliziotto che in 35 anni di onorata carriera non ha mai sparato a un uomo. Queste sono infatti le parole che Franco ha scritto nel discorso che terrà all’indomani della sua ultima di notte in servizio. Ma quella notte, fra le strade di Milano, sarà più lunga e difficile di quanto lui avrebbe mai potuto immaginare. E metterà in pericolo tutto ciò che conta per lui: il lavoro da servitore dello Stato, il grande amore per la moglie Viviana, l’amicizia con il collega Dino, la sua stessa vita.