Afferrare l'istante irripetibile, o anche solo accarezzarlo per un attimo, quel momento in cui appare la verità invisibile di un'emozione, di un uomo. Il tempo interiore della tenerezza e quello della paura, la malinconia, che qui è dolce e là amarissima, la gioia fugace, la dolorosa coscienza del limite, dell'errore (anche dell'orrore).
Ecco cosa ci regala Gianni Amelio in questo film potente – delicato e crudele insieme – così lucido che fa quasi male, pieno di amore (l'amore sta nella fragilità dei personaggi, nell'autenticità degli interpreti, nella regia rigorosa senza mai essere arida). Non l'aneddoto psicologico o l'affresco sociale, ma la realtà mutevole e misteriosa dei sentimenti. Non la cronaca, ma l'attualità di un “tempo della fine”, la vecchiaia, che può sempre diventare un nuovo inizio, e che qui sembra quasi la metafora di tutta un'epoca (la nostra), stanca, torbida, disincantata, tormentata da un malessere che si respira nell'aria, ansiosamente alla ricerca di un senso e una speranza di felicità. Di una qualche tenerezza.
Amelio racconta un padre che non ama più i suoi figli. Un anziano avvocato, un sopravvissuto. Che all'inizio è solo un fuoricampo silenzioso, appendice immobile dell'inquadratura dentro cui la figlia Elena prova a dirgli chi è e cosa vuole: lei che lavora in tribunale come interprete, che deve accontentarsi di tradurre ciò che dichiarano gli accusati, mentre vorrebbe dire la verità oltre le parole. Lorenzo è una casa vuota in un palazzo della Napoli bene. Un uomo intelligente e spigoloso, ma anche inquieto, quasi indeciso tra il vivere e il morire, legato solo a un ragazzino, il nipote che “ruba” alla scuola per insegnargli il mondo a modo suo («Dimmi la differenza tra stinto, istinto, estinto»). Fino a quando incontra la famiglia della porta accanto: Michela, Fabio e i loro due figli. Lei che dimentica sempre le chiavi e rimane fuori casa (chissà perché), ma scopre un'altra entrata sul terrazzo, proprio di fronte all'appartamento di quello strano signore brusco ma gentile. Lui che fa il mestiere «voluto dalla madre», che ha qualcosa che gli rode dentro e traspare dallo sguardo febbrile e i gesti nervosi, che aggredisce un ambulante immigrato troppo insistente e poi lo rincorre e gli regala uno di quegli sguardi che valgono un film, due romanzi, venti editoriali.
Il discorso sta tutto in quei gesti e in quegli sguardi, le mani, il tono della voce, i momenti folgoranti, liberi, inattesi, che Amelio sa trovare dentro la (scolpita) limpidezza del suo cinema, scavando, togliendo, scandagliando le emozioni dei suoi personaggi, cercando la massima semplicità, la sostanza delle cose.
La nave vuota, i vuoti corridoi dell'ospedale, il tempo svuotato, le lunghe camminate verso chissà dove, dentro una storia fatta di padri e figli. Il problema non è arrivare, ma tornare. Imparare ogni volta ad amare, di nuovo. Avere il coraggio di riconoscersi fragili, e quindi generosi nella tenerezza. La tragedia arriva all'improvviso, spazzando via le certezze e le maschere, sconvolgendo l'orgoglio ottuso. E intanto il passato viene a galla, il buono e soprattutto il cattivo, e noi scopriamo di amare un uomo che potremmo anche odiare, se non lo avessimo conosciuto così intimamente, nelle sue contraddizioni.
Renato Carpentieri crea uno dei personaggi più belli e vividi del cinema italiano recente (e anche meno recente). Trasforma il funambolo provocatore del romanzo di Marone (La tentazione di essere felice) in un vecchio scontroso e affamato d'affetto che non accetta l'età, geloso della propria autonomia, che ogni giorno si lava la sua biancheria, come fa il regista e l'uomo Gianni Amelio, il quale gli presta anche la sua visione monicelliana della vita e della vecchiaia. Ma definire questo film “autobiografico” sarebbe una banalizzazione poco utile alla sua comprensione (è probabile che il regista si identifichi con la figlia, ostinata nel suo amore, più ancora che con l'anziano padre).
Certo è che Amelio riesce a entrare in profonda sintonia coi suoi interpreti, tutti ispirati, Elio Germano, Micaela Ramazzotti, Giovanna Mezzogiorno, Arturo Maselli, Maria Nazionale. Aiutati da una scrittura “esatta” ma gentile, che a volte sembra quasi dosare gli effetti (si sorride, anche, si ride e poi si soffre, come nella vita) per poi terremotare i rapporti e le attese, stando però sempre dentro la verità dei personaggi, il loro mistero, anche nelle scene più premeditate e metaforiche. E poi c'è una Napoli che non assomiglia mai al luogo comune che è diventato Napoli: a tratti evanescente, aliena, quasi astratta, borghese, poi solo attraversata nella sua affollata solitudine, infine aperta al futuro, che ha qualcosa di alienante, ma è anche vivo, vissuto, è una possibilità).
Seguendo la suddivisione ameliana tra film “riusciti” e film “importanti” – quelli che piacciono a tutti (da Il ladro di bambini a Le chiavi di casa) e quelli che hanno fatto fare un passo avanti al suo cinema (da Lamerica a L'intrepido) – per chi scrive, La tenerezza va messo tra i più importanti, accanto a quella vetta indiscussa che rimane Così ridevano. È un film di cui abbiamo bisogno, oggi.
Sentimenti che si incrociano tra il sorriso e la violenza. Un padre e i suoi figli non amati, un fratello e una sorella in conflitto, una giovane coppia che sembra serena. E i bambini che vedono e non possono ribellarsi. La storia di due famiglie in una Napoli inedita, lontana dalle periferie, una città borghese dove il benessere può mutarsi in tragedia, anche se la speranza è a portata di mano.