“Il cinema di Troisi era bello perché aveva la forma della vita”. Con questa frase paradigmatica si conclude la breve premessa che Mario Martone – e la sua voce fuori campo – usa per aprire Laggiù qualcuno mi ama, il documentario che ha dedicato a Massimo Troisi. Sullo schermo appaiono immagini di repertorio che compongono davanti ai nostri occhi la storia recente di Napoli: gli anni Settanta, le manifestazioni, la devastazione del terremoto del 1980. Martone decide di contestualizzare Troisi, di restituirlo a un tempo e a un luogo sfilandolo dall’agiografia per raccontarlo come un uomo, prima ancora che un attore e un autore, ben piantato nel contesto culturale della sua epoca. Martone confessa la sua ammirazione, si mette in gioco e azzarda un parallelo: Troisi come Truffaut e Antoine Doinel, sospeso in un equilibrio impossibile tra autore e personaggio, come a suggerire un percorso di crescita trasversale, che attraversa i suoi film maturando, cambiando, scartando, spezzando le gabbie di uno schema. Agli occhi di Martone, Troisi non è (o meglio, non è solo) il fenomeno da botteghino che – assieme a Benigni, Verdone, Nuti – ha scombussolato la commedia italiana degli anni Ottanta ma è prima di tutto un artista organico al suo tempo, consapevole della forza dirompente della sua comicità; un autore che apparteneva a quella scena cinematografica ma che allo stesso tempo affondava le radici in una cultura alternativa napoletana fondata sul teatro di ricerca, animata da figure come Antonio Neiwiller, in seguito fondatore dei Teatri Uniti con Toni Servillo e lo stesso Martone. Lo scavo nella personalità complessa di Troisi è quindi per Martone una forma di ricollocamento intellettuale che nasce dalla necessità di chiarire la peculiarità artistica dell’attore di San Giorgio a Cremano.
Per dare spessore (e coralità) a questa sorta di film-saggio, lontanissimo dall’essere un semplice omaggio a ciglio umido, a Martone si affianca Anna Pavignano – co-sceneggiatrice di tutti i film di Troisi e a lungo sua compagna di vita – e insieme ci conducono in un viaggio intimo fatto di registrazioni, appunti, ritagli, diari. La sfaccettata complessità di Troisi emerge per frammenti, pronti a ricomporsi in un corpus artistico forse mai pienamente compreso. I filmati di repertorio – sketch teatrali e televisivi, spezzoni di film, interviste, momenti intimi con gli amici, Maradona e Pino Daniele – si alternano con testimonianze d’eccezione (Francesco Piccolo, Paolo Sorrentino, Roberto Perpignani, Ficarra e Picone) volte a illuminare l’orma lasciata da Troisi da angolature differenti e per questo complementari. Martone ha ben chiara l’importanza che riveste – non solo a Napoli, ma specialmente a Napoli – la cultura popolare: in questo l’analisi scarpettiana di Qui rido io ne è un formidabile compendio.
Quello che a lui preme è però mettere questa cultura in prospettiva, dargli aria e spazio, riscoprirla politica. I paragoni, quasi sollevati per una libera associazione di idee, sono con Pasolini e Andrea Pazienza, non per questioni di mero valore ma per innovazione e originalità di pensiero. E se la carriera di Troisi si srotola davanti ai nostri occhi di spettatori alternando momenti privati con le scene dei suoi film che il pubblico ricorda a memoria, lo sguardo è sempre curioso, mai banale, pronto a cogliere in ogni sequenza il lampo di genio, l’intuizione registica, il tempo attoriale. Laggiù qualcuno mi ama è qualcosa di più di un affettuoso ricordo: è l’omaggio verso un autore capace di osare nuove strade all’interno di un genere spesso canonizzato. È un film relazionale, per la sua capacità di trasmettere una riflessione condivisa e allo stesso tempo di rievocare, anche collettivamente, un mondo in fermento. Laggiù qualcuno mi ama riesce allo stesso tempo a tessere un ritratto emotivo di un autore e un’opera di critica che ne celebra il valore ripensando e riflettendo in termini puramente artistici. E il discorso non si sfalda mai nonostante aleggi su tutto l’ombra funerea della malattia, che ha accompagnato Troisi fin da ragazzo e che ha plasmato quella sua comicità così malinconica, ferita ma mai rassegnata. Martone rifugge ogni morbosità luttuosa per restituire vividamente anche gli ultimi momenti di vita dell’attore sul set di Il postino, animato da un vitalismo mai piegato che sapeva e voleva guardare – come in tutti i suoi film – alle bizzarrie dell’amore, alle sue conseguenze, all’incrollabile centralità degli affetti.
Montando le scene dei suoi film (intervallate da materiali inediti e conversazioni con chi lo conosceva e con artisti che ne sono stati influenzati) Martone mette in luce Troisi come grande regista del nostro cinema prima ancora che come grande attore comico, e per farlo delinea la sua parabola artistica dagli inizi alla fine, inquadrandolo nella temperie degli anni in cui si è formato e nella città comune ai due registi, Napoli.