Una casa piena di colombi e cinque sorelle. Pinuccia, Maria, Katia, Lia, Antonella. Un buco scavato nella parete per sentire il rumore del mare.
Le sorelle Macaluso di Emma Dante inizia così, con un foro aperto nel muro da queste bambine, che scavano con foga e ostinazione. Uno spiraglio di luce sull’esistenza, per vedere che cosa le aspetta, chissà cosa sarà, chissà cosa c’è nel futuro. E cosa vedono da quella fessura, in realtà, non si sa: dopo aver infilato l’occhio nel buco non arriva nessun controcampo, come ci si aspetterebbe, a mostrare l’oggetto del loro guardare.
Eppure la regia di Dante non fa sconti, mostra tutto ciò che c’è da mostrare, anche le immagini più crude con fedele attinenza al reale, inteso nel senso etimologico del termine: da res, cosa, oggetto che esiste, sostanza, verità. Cose, oggetti, pezzi di vita vissuta di cui si riempiono le stanze della casa in cui sono nate e cresciute le protagoniste: carte sparse sul tavolo, bambole spettinate, chicchi di mangime e piume di piccioni. Quadri, giocattoli, pezzi d’arredamento su cui si posa la macchina da presa, sostando e indugiando, quasi a voler concretizzare l’immanenza del loro esistere nel tempo e nello spazio.
Quello spazio che le accompagnerà per tutto l’arco delle loro vite, dimora in grado di ospitarle in qualsiasi momento senza mai mutare nel tempo: il naso del pagliaccio è ancora rosso, anche se intanto le bambine sono diventate ragazze e le ragazze sono diventate adulte. La chiave d’ingresso viene sempre lasciata sulla serratura, all’interno, così chi vuole entrare sarà costretto ancora una volta a suonare il campanello e la maniglia della porta-finestra continuerà a staccarsi, anche quando la casa sarà ormai quasi del tutto vuota. Gli anni passano ma le cose restano sempre le stesse, sono le persone che cambiano, crescono e invecchiano. Solo chi non c’è più rimane così com’era.
Ma, nella famiglia sui generis delle sorelle Macaluso, il vuoto lasciato dalle persone care è subito compensato dalla traccia indelebile che hanno lasciato. L’assenza si fa presenza, il ricordo diventa denso fin quasi ad assumere la consistenza della materia, nella ritualità dei gesti di un rossetto spalmato sulle labbra, di un morso dato a una barretta di cioccolata, di un libro letto ad alta voce. Ci sono legami che non si possono scindere, neanche dopo la morte. È proprio un lutto a scandire l’esistenza delle sorelle, un evento tragico più volte rievocato ma mai pronunciato esplicitamente, lasciato intuire nella reticenza di un montaggio discreto, incastonato nella memoria ancora nitida di un’estate al mare.
La sceneggiatura di Le sorelle Macaluso, tratta dall’omonima pièce teatrale della stessa Dante, riesce a coprire l’arco di una vita - anzi, di cinque vite - svelando le ammaccature, le crepe, le ferite che l’esistenza inevitabilmente infliggerà loro. Ecco, allora, cosa si vede appoggiando l'occhio a quel foro nel muro da cui guardavano le sorelle bambine: l'incessante scorrere di speranze e rimorsi nel piccolo grande caos della vita quotidiana.
Pur nel caos e nel dolore, però, non ci si dimentica mai della poesia, che s’incarna nelle ali degli uccelli portati dal vento e dalle parole di Inverno di De André cantata da Battiato. La stessa poesia di un balletto scaturito dalla frustrazione di un sogno mai realizzato, o quella che nasce dall’amore per gli animali nel testo di Le piccole persone di Anna Maria Ortese. «Anche i colombi devono mangiare nei piatti belli», dice la piccola Antonella, prima di preparare un piatto con il becchime. Quei colombi che, una volta librati in volo in occasione di feste e cerimonie, dopo aver disteso le penne al vento, torneranno sempre nella vecchia casa di fronte al mare.
Proprio come le sorelle Macaluso, dopo aver seguito ciascuna il proprio percorso, torneranno sempre al nido. E saranno ancora una volta, e questa volta per sempre, tutte insieme.
Maria, Pinuccia, Lia, Katia, Antonella. L’infanzia, l’età adulta e la vecchiaia di cinque sorelle nate e cresciute in un appartamento all’ultimo piano di una palazzina nella periferia di Palermo, dove vivono da sole, senza genitori. Una casa che porta i segni del tempo che passa, come chi ci è cresciuto e chi ancora ci abita. La storia di cinque donne, di una famiglia, di chi va via, di chi resta e di chi resiste.