Non è piaciuto molto a gran parte della critica, Le strade del male, il film che Antonio Campos ha tratto insieme al fratello Paulo dal romanzo d’esordio di Donald Ray Pollock, pubblicato nel 2011. Gli si è imputato, di volta in volta, una certa mancanza di anima rispetto alla narrazione del libro, una definizione abbozzata dei molti personaggi, una densità eccessiva di avvenimenti drammatici e anche di generare noia nei suoi molteplici snodi narrativi, come se gli effetti fossero una categoria d’analisi, ancor più delle motivazioni stilistiche e narrative che li provocano.
Questione di gusti. Ed è un peccato, perché Le strade del male è un lavoro dall’impianto energico e ritmato, in cui gli eventi si succedono, si ripetono per esigenze di significato ed entrano in collisione a distanza di tempo, come se tutto fosse regolato da un destino euclideo in grado di congiungere ogni linea al relativo punto d’approdo. Quella desunta da Pollock è una narrazione popolare – necessariamente ridotta rispetto all’ampiezza del romanzo, ma mai tradita – che affonda la sua natura nello spirito dei luoghi dello scrittore, in un certo gusto per i colpi di scena reiterati e che non è certo lontana dalla tradizione del gotico sudista à la Flannery O’Connor, benché tutta la storia si svolga a cavallo della Mason Dixon line, lungo il melmoso segmento che va da Cold Creek, West Virginia, a Knockemstiff, Ohio (che per Pollock è una sorta di Yoknapatawpha realmente esistente).
Il film è sicuramente, come è stato detto, una meditazione sulla fede portata all’estremo della violenza, ma la questione della fede è solo l’insieme globale che racchiude tutte le derivazioni di un racconto stratificato, corposo, drammatico e raccapricciante, capace di smuovere lo sdegno dello spettatore e indirizzarne il catartico bisogno di vendetta. In questo, Le strade del male segue un percorso elementare nella sua classica derivazione antico-testamentaria: la colpa è costantemente punita secondo percorsi tortuosi che, spesso sfidando la verosimiglianza, esaltano la saldezza della Provvidenza e le sue traiettorie beffarde, qui tradotte in un complesso intreccio narrativo.
Tramite Pollock, anche voce narrante onnisciente del film, i fratelli Campos raccontano il dramma dell’individuo di fronte a disegni talmente ampi da risultare incomprensibili e inspiegabili anche a coloro che si pretendono maggiormente vicini alla fede, sia per illusione, sia soprattutto per folle fondamentalismo. I personaggi, infatti, più cercano di avvicinarsi a Dio, più restano vittime di un silenzio talmente assoluto che invece di sfociare nella disperazione e nel dubbio, come in Bergman o in Bernanos (e in Bresson), deflagra in una violenza cieca e frustrata, i cui estremi sono il sacrificio sanguinoso e il paranoico tentativo di rivelazione attraverso un’impossibile resurrezione. Lo stesso simbolo della croce è proposto costantemente tramite un ribaltamento del suo significato salvifico, per trasformarsi in un’immagine di morte violenta da grand guignol o di manipolazione nei confronti delle anime innocenti.
Le strade del male è immerso in una cultura religiosa talmente onnicomprensiva da sembrare quasi medioevale, eppure, più che meditare sul portato della fede, si propone come un soffocante percorso di liberazione dalle sue spire condotto con le sfumature ambigue di un incubo, tra ferite, lutti e perversioni. Su questo stesso percorso s’intrecciano gli altri motivi proposti da Pollock e sviluppati dalla sceneggiatura dei due fratelli Campos, motivi che spesso, nella tradizione sudista, sono estensioni consequenziali che sfaldano i loro termini in un tutto unico e indistinto. In una letteratura così intrisa di sangue, sudore ed escrementi come quella del sud degli Stati Uniti, il motivo del legame familiare, dei destini comuni e ineluttabili all’interno di un contesto reso putrido dall’abbrutimento e dall’isolamento, diventa fondamentale anche all’interno del film perché fattore di riferimento di quello stesso degrado.
«Circa 400 persone vivevano a Knockemstiff nel 1957 – recita indicativamente la voce narrante di Pollock, all’inizio –, quasi tutte imparentate per via di qualche calamità dimenticata, che essa fosse lussuria, necessità o semplice ignoranza». Il legame di sangue è spesso un viatico alla condanna; ne Le strade del male si traduce in una coazione a rivivere, a distanza di anni, le stesse situazioni di cui già sono state vittime i genitori, perpetuando un vincolo che si può sperare di rompere non certo con un atto di volontà, già mortificato in partenza per formazione e cultura, quanto affidandosi a una serie di circostanze favorevoli e del tutto casuali.
La diffusa abiezione che coinvolge anche i tutori dell’ordine e i ministri di culto (Robert Pattinson è viscido e urticante fin dalla sua prima apparizione) non è tuttavia un esclusivo retaggio geoculturale, perché è organizzata (anche) come esplicita allegoria dello smarrimento dei valori dovuto alla Seconda guerra mondiale. Tra i fantasmi di soldati crocifissi dai giapponesi nelle prime scene del film e una Luger usata indicativamente per chiudere le situazioni in sospeso e poi definitivamente seppellita alludendo a una flebile speranza in un futuro migliore, Le strade del male è come pervaso da un’enorme e ideale parentesi che contiene buona parte delle angosce collettive del secondo dopoguerra, dietro le quali si cela un’intima vocazione all’autodistruzione.
Nel Secondo dopoguerra, in una cittadina del West Virginia, Arvin, un ragazzino bullizzato a scuola, rimane orfano dopo la morte per cancro della madre e il conseguente suicidio del padre. Nel tentativo di prendere controllo della propria vita, Arvin intreccia il proprio cammino con alcuni oscuri personaggi: la coppia di serial killer, Carl e Sandy Henderson, che viaggia sulle autostrade americane in cerca di modelli da fotografare e poi uccidere; un predicatore che si ciba di ragni, convinto di poter riportare in vita i morti; uno sceriffo corrotto...