Un giovane è seduto al pianoforte in una stanza buia: l’aria assorta ma a suo modo nervosa, impaziente. Aspira da una sigaretta e borbotta qualche frase sulla ricerca di una quadratura armonica per la musica che sta componendo. Sembra incerto, quasi consumato da un’ansia inespressa. Lo schermo va a nero, la musica e i suoni rimbombano, quasi a imitare l’effetto di voci che esplodono in testa in un cupo crescendo. Poi i colori invadono lo schermo all’unisono con la solare armonia di Surfin’ USA, uno dei maggiori successi dei Beach Boys degli anni Sessanta, quando il gruppo californiano portava sulle spalle il mito di un’America fondata su allegria e spensieratezza.
Ma l’allegria e la spensieratezza non facevano parte del carattere del loro leader, Brian Wilson, un genio del pop contemporaneo schiacciato tra fragilità mentale e incapacità di adattarsi alla figura pubblica che il mondo – membri della band, produttori, amici interessati, mogli e fidanzate – voleva cucirgli addosso. Sin dalla prima scena Love & Mercy, diretto da Bill Pohlad, produttore da Oscar qui alla seconda regia, si configura come un’indagine su una personalità scissa: da una parte il Wilson cantante, spinto dalla sua cerchia più intima a consolidare il successo rimanendo fedele alla formula compositiva che gli aveva regalato soldi e gloria, dall’altra il musicista introverso con aspirazioni alla perfezione, personalità castrata da un padre feroce, mente creativa con tendenze schizofreniche, disinteressato alla fama e alla gratificazione della folla – già nel 1965, in seguito a un attacco di panico in aereo, aveva rinunciato a concerti e tour per rintanarsi in uno studio di registrazione – in nome della ricerca in punta di cesello di una musica che avrebbe potuto scacciare i suoi demoni.
Il film di Pohlad, per descrivere una personalità duplice, si sdoppia anch’esso rompendo la linearità temporale e raccontando la crisi creativa di un musicista al suo apice e la depressione ormai conclamata che, vent’anni più tardi, ha consegnato Wilson a un’esistenza dettata dalle leggi di uno psicoterapeuta intrusivo e manipolatore, che sostituiva ogni contatto umano con generose dosi di farmaci, con un occhio alla sofferenza del suo paziente e l’altro al suo patrimonio. La scissione tra passato e presente è amplificata nella messa in scena di Pohlad dall’utilizzo di due diversi attori che interpretano Wilson nelle differenti fasi della vita: Paul Dano è la star del pop in sempre maggiore (auto)isolamento, John Cusack è il disilluso vecchio cantante che si crede ormai sconfitto dai propri fantasmi.
Il film, che attraverso un ritmo irregolare (in alcuni momenti quasi in levare) scardina il fluire canonico comune a molti biopic, coglie in due momenti particolari la chiave interpretativa del suo protagonista; una scelta di catalizzazione emotiva e drammaturgica che ricorda, pur senza la stessa radicalità narrativa e metaforica, lo Steve Jobs di Sorkin/Boyle. La parte affidata al volenteroso e languido Cusack si srotola seguendo stilemi piuttosto convenzionali, con dolciastri toni mélo, sulla possibile redenzione di un’anima affranta attraverso il potere taumaturgico dell’amore – qui una rivenditrice d’auto con il sorriso contagioso di Elizabeth Banks – che si ribella alle perfidie dominanti imposte dal terapeuta con smanie di potere e paternalismo soffocante (Paul Giamatti, prevedibile nel suo essere luciferino). La ricostruzione della crisi di Wilson al culmine del successo e improvvisamente sull’orlo del precipizio esistenziale trova invece in Dano un interprete delicato e sofferente.
Il dono migliore di Love & Mercy risiede però nella capacità di raccontare, più che il Wilson pubblico e pieno di ritrosie degli anni Sessanta o quello titubante e fragile di vent’anni dopo, il travaglio emotivo della creazione artistica, l’assillo totalizzante di chi ha bisogno di realizzare le proprie idee compositive fino all’ultimo dettaglio, alla scoperta ossessiva di suoni e strumenti nuovi. Le scene girate all’interno degli studi di registrazione durante le sessioni di Pet Sounds – uno dei dischi più misteriosamente belli della storia del pop – colgono con precisione la normalità quotidiana e le estenuanti ripetizioni che sono alla base della ricerca di una perfezione espressiva; la smania di realizzazione, attraverso una musica stratificata e lucente, di un suono capace di esprimere quella gioia che la vita spesso nega; le ansie e le aspirazioni di un artista che solo attraverso la musica è riuscito a gettare un ponte sul baratro della propria infelicità.
Ritratto non convenzionale di Brian Wilson, cantante, cantautore e leader dei Beach Boys. Con la sue canzoni a far da colonna sonora, il film esplora intimamente il travagliato percorso personale dell'artista che Paul McCartney ha definito un genio. Nascosta da un'apparente semplicità la sua musica ha segnato per sempre la storia del pop, mentre la sua mente è stata considerata per anni affetta da una forma di schizofrenia. L'incontro con la futura moglie Melinda riuscirà a portare l'equilibrio nella sua mente e nella sua vita.