Lubo Moser, il protagonista dell’ultimo film di Giorgio Diritti e del romanzo da cui è tratto, Il seminatore di Mario Cavatore (Einaudi, 2004), è uno jenisch, cioè un nomade, uno zingaro, nella Svizzera di fine anni ’30. Con la moglie, i tre figli e il resto della famiglia allargata gira il paese esibendosi per strada in numeri circensi e musicali. In uno di questi, nella prima scena del film, nasce letteralmente dal ventre di un orso e danza travestito da donna: Lubo è senza dimora, senza sesso (o di entrambi i sessi), è adulto e bambino, padre di una famiglia e figlio di una comunità. È la sintesi del suo stesso popolo, un gruppo etnico autoctono che la Svizzera ha perseguitato con il programma “Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse” (la pratica da pulizia etnica di strappare bambini alle loro famiglie per rieducarli in collegi nazionali) riconoscendo le proprie responsabilità solamente dopo il 1987.
Dopo il primo, simbolico atto di nascita e il conseguente travestimento, Lubo passerà il resto della sua vita – e del film, che ne segue la vita fino alla fine degli anni ’50 – dentro altri costumi e altre identità. Prima come soldato della Federazione elvetica, costretto ad arruolarsi per difendere i confini da un’eventuale invasione in tempo di guerra, poi, dopo la sottrazione dei figli che ha portato anche alla morte della moglie, nei panni di un ebreo austriaco che uccide e al quale ruba l’identità e i gioielli provenienti da ricche famiglie perseguitate dai nazisti. Al termine della guerra, creduto un ricco commerciante, Lubo si mette alla ricerca dei figli e indagando in vari collegi ne diventa un paradossale finanziatore, ingraziandosi l’alta borghesia finanziaria svizzera e ingravidando con il suo seme “sporco” le ricche signore ingioiellate di cui diventa amante.
Quella di Lubo è una vendetta, la rivolta personale contro una legge assurda, o meglio ancora la restituzione sotto forma di contaminazione e invisibile condanna di ciò che gli è stato tolto. Per Diritti, però, come fa dire dallo stesso protagonista, l’unica legge giusta è quella dell’amore, l’agire in nome dell’amore, e dunque nel film il girovagare di Lubo s’interrompe a Bellinzona, alla metà degli anni ’50, quando incontra una cameriera ragazza madre e se ne innamora, mettendola incinta non più per ritorsione ma per affetto. Lubo rinasce dunque una seconda volta, ma il suo destino è restare nascosto agli occhi di chi ama, condannato a non ritrovare i vecchi figli e a non farsi riconoscere da quello nuovo, nel momento in cui la sua truffa viene smascherata ed è condannato a dodici anni di prigione…
Lubo, il film, segue una parabola di dissoluzione scegliendo un approccio il più distante possibile dai fatti, come se dopo l’apparizione iniziale, Lubo, il personaggio, svanisse poco alla volta, perduto nella penombra della fotografia di Benjamin Maier (la produzione è italo-svizzera), nascosto dalle false identità, privatosi volontariamente di un dente per somigliare all’uomo che ha ucciso e al quale ha significativamente staccato la testa… Parallelamente, lo stile di Diritti è quello di un cinema europeo d’autore elegante e trattenuto, giustamente anti-drammatico e anti-retorico, ma anche per questo al limite dell’afasia. La voluta mancanza d’empatia trascolora in una secchezza espressiva meccanica e a tratti impacciata, ancora più evidente nell’ultima parte del film, quando la vita di Lubo si colora di speranza ma il racconto non sterza dal suo esausto cammino.
Tocca talvolta alla musica di Marco Biscarini squarciare il tono monocorde del film con stacchi improvvisi e violenti, e al protagonista Franz Rogowski urlare il dolore del suo personaggio o togliersi la maschera che il ruolo gli impone: sono però frammenti che stridono con il resto della messinscena, in un film, dopotutto, che già nella prima sequenza dice quello che ha da dire e passa il resto delle successive tre ore a seguire un percorso segnato.
Lubo è un nomade, un artista di strada che nel 1939 viene chiamato nell’esercito elvetico a difendere i confini nazionali dal rischio di un’invasione tedesca. Poco tempo dopo scopre che sua moglie è morta nel tentativo di impedire ai gendarmi di prendere i loro tre figli piccoli, strappati alla famiglia in quanto Jenisch, come da programma di rieducazione nazionale per i bambini di strada. Lubo sa che non avrà più pace fino a quando non avrà ritrovato i suoi figli e ottenuto giustizia.