Le intenzioni di Nome di donna sono ottime. Senza contare che l’uscita del film in questo particolare momento storico non poteva essere più azzeccata, oltre a rappresentare un precedente, tenuto conto dell’attualità e della sensibilità che proprio in questi ultimi mesi sta suscitando il tema degli abusi sessuali e, nello specifico, delle molestie subite dalle donne in ambito lavorativo. Lo si potrebbe considerare un instant movie.
Non è così. Dopotutto la criticità e la portata di un simile argomento sono universali e senza tempo.
Ciò nonostante, alle buone intenzioni di Nome di donna fa da contraltare un però. Che non riguarda, sia chiaro, la condivisione o meno della posizione sostenuta dagli autori del film e che passa attraverso il ruolo della protagonista, Nina, e della sua sacrosantissima azione legale contro l’uomo che ha usato violenza contro di lei, fisica o psicologica che sia. Piuttosto, è la triste constatazione come il nuovo film diretto da Marco Tullio Giordana, dopo una serie di valide premesse, a un certo punto non riesca più a sostenerne il peso, finendo di conseguenza per sfilacciarsi e accartocciarsi su se stesso, fino a un finale sbrigativo e non all’altezza di quanto di buono seminato nella prima parte.
Nome di donna inizia con l’arrivo di Nina (Cristiana Capotondi) in una non meglio precisata località della Brianza. Nina è una giovane madre economicamente precaria e, grazie all’intercessione di un vecchio amico prete di famiglia, ha accettato una sostituzione, che potrebbe trasformarsi verosimilmente in un’assunzione a tempo indeterminato, come inserviente presso una prestigiosa clinica per anziani. Qui risalta, oltre all’interpretazione impeccabile della Capotondi, finalmente in un ruolo che inaugura la fase della maturità della sua carriera di attrice, e a cui donano sia i capelli corvini che il lieve accenno di rughe sul viso stanco e arrabbiato, lo sguardo insolito sulla città di Milano, ritratta per piccoli scorci, anche aerei, che sembrano istantanee di una grande metropoli, e in particolare sulla provincia lombarda, resa cupa e misteriosa, in controtendenza rispetto all’immagine bucolica che ne ha dato recentemente Luca Guadagnino.
Di Nome di donna funziona anche la parte che vede Nina vivere la spiacevole esperienza delle indelicate avances del direttore della clinica (Valerio Binasco), in seguito alla quale scoprirà che all’interno della struttura vige un clima di omertà, retto dalla complicità sia di alcuni componenti del consiglio di amministrazione, in particolare del capo del personale legato al mondo ecclesiastico (Bebo Storti), sa del team di colleghe, tutte donne e tutte vittime, allo stesso modo di Nina, di molestie, ma disposte ad accettare lo status quo per paura di perdere il posto di lavoro.
Si sorride, anche, per la presenza di Adriana Asti in un ruolo autoreferenziale, quello di un’attrice di teatro sul far del tramonto che segue i propri ingaggi ospite della clinica, tenendo sulle spine Colin Firth che la vorrebbe coinvolgere in uno spettacolo teatrale scespiriano e ricordando i propri amori intellettuali che hanno reso grande la cultura meneghina incorniciati sul comodino: Giorgio (Strehler), Luca (Ronconi) e Luchino (Visconti).
Le cose degenerano nel momento in cui Nina, sfidando i dubbi sollevati dal fidanzato e l’ostilità della struttura, decide di rivolgersi a uno studio legale. È allora che Giordana e la sceneggiatrice Cristiana Mainardi modificano bruscamente la rotta in favore di una struttura da film procedurale. Il risultato è che tutta l’ambiguità e la tensione create vengono sciolte in un processo che francamente non regge, per brevità e lacune di scrittura, il confronto né con lo spirito dei primi tre quarti del film né con altri esempi di arringhe più illustri. E non occorre certo tirare in ballo la scuola americana.
Ci sono poi degli errori intrinseci. Il personaggio interpretato da Binasco, per esempio, è talmente perfido, col passare del tempo sempre di più sopra le righe, che il dubbio che il suo comportamento possa creare confusione tra il significato di avance e quello di molestia smette di sussistere quasi subito. Per non parlare di alcuni momenti insensati, e perfino inutili ai fini della narrazione, come l’incomprensibile scena in cui Nina, dopo essersi già rivolta agli avvocati, firma con nonchalance un documento di rinuncia sottopostole dal capo del personale in accordo col direttore.
Succede così che un film che sulla carta aveva tutte le prerogative per accendere ancora di più il dibattuto su un argomento così delicato e sintomatico dei tempi in cui viviamo, rinunci strada facendo alla sua missione, risolvendosi in un nulla di fatto da cui non emergono né la denuncia né la controversia, ma solo una gran confusione.
Nina si trasferisce da Milano in un piccolo paese della Lombardia, dove trova lavoro in una meravigliosa residenza per anziani. Un mondo quasi fiabesco. Dove però si cela un segreto scomodo e torbido. Nina sarà costretta a confrontarsi con le sue colleghe, italiane e straniere, per affrontare il direttore della struttura, Marco Maria Torri, in un’avvincente e appassionata battaglia sul diritto di essere donna.