All’inizio di Nostalgia, Felice Lasco, il protagonista interpretato da Pierfrancesco Favino, cinquantenne napoletano che torna a casa, nel quartiere Rione Sanità, dopo quasi quarant’anni d’assenza, ormai cittadino egiziano e quasi incapace di ricordare l’italiano, percorre le stesse strade che erano già di Delia in L’amore molesto, film di 26 anni fa che raccontava un altro ritorno a casa, un altro confronto con la propria infanzia. Là il passato era un trauma da scovare nelle pieghe della memoria e del rimosso, qui è un evento mai dimenticato, di fronte al quale la fuga era l’unica soluzione: anche per questo, a partire dall’omonimo romanzo di Ermanno Rea da cui è tratto, Nostalgia è un film più concreto di L’amore molesto, ugualmente calato nello spazio di una città (o meglio, di un suo quartiere, la Sanità per l’appunto), ma meno impressionista, meno sporco, caotico e rumoroso, e inevitabilmente più maturo, razionale, distante.
Nostalgia è ancora il film di un figlio (là una figlia), ma di un figlio adulto, un cinquantenne che torna dalla madre per accompagnarla verso la morte, con pietà, con amore e riconoscenza, a cominciare da quel saluto sul limitare della porta e da quel bagno rituale immerso in un’atmosfera da pittura sacra che sono le due immagini più belle del film. Martone non fatica a riconoscersi in Felice Lasso, ne segue i percorsi nel suo vecchio mondo con uno stile geometrico, facendo sovente uso del grandangolo negli spazi stretti, con un montaggio senza strappi (a volte anche con impropri flashback vintage sul tempo felice della giovinezza) facendo della Sanità non più un luogo tentacolare, ma - come ha detto a Cannes presentando il film - come un labirinto, una scacchiera.
In questo spazio fortemente (eccessivamente) simbolizzato, Martone (come sempre affiancato alla sceneggiatura da Ippolita Di Majo) cerca in modo originale di universalizzare il suo racconto: le tre figure principali del film, cioè Felice, che dopo la morte della madre non torna dalla moglie a El Cairo ma spinto dai ricordi riprende contatto con vecchie conoscenze e si immerge nel quartiere dominato dalla camorra; Oreste, il suo vecchio amico d’infanzia diventato nel frattempo feroce capoclan; e don Luigi (ispirato alla vera figura di don Antonio Loffredo) si muovono ciascuna lungo una propria strada, attraverso i propri vicoli, il primo immerso nel passato, il secondo proiettato verso futuro indistinto e il terzo nel presente, con la sua lotta alla malavita, l’accoglienza per i rifugiati, il recupero di ragazzi e ragazze dai destini già segnati.
Il film prende poco alla volta corpo grazie all'interazione fra queste figure, proprio come pedine su una scacchiera che possono osservarsi a distanza, sfiorarsi, mangiarsi l'un l'altra. Il contrasto tra il verismo del contesto e l’universalità dei personaggi genera una materia potenzialmente gravida di dramma, ma il film - pur epurando il romanzo di Rea dei suoi elementi storici e giornalistici - soffre per l’eccessiva elaborazione critica e intellettuale.
L’amore molesto non migliorava il romanzo di Elena Ferrante da cui era tratto, ma lo trasportava e lo dissolveva nella realtà della città filmata, trovando negli spazi uno sfogo, un riverbero. Qui, invece, anche e soprattutto grazie a uno stile controllatissimo e una messinscena di grande finezza, i vicoli e le piazze della Sanità, le case dei suoi abitanti, la chiesa del quartiere, la stessa abitazione che Felice acquista in attesa che la moglie egiziana lo raggiunga, restano come luoghi più osservati che vissuti, segno sì di un’estraneità che il protagonista non si toglie di dosso (nonostante il simbolico passaggio dall’arabo della prima battuta al dialetto napoletano che poco alla volta riemerge come una lingua madre), ma anche di un desiderio del regista di tenere per una volta a bada la tentazione delle catacombe, l’immersione nello sporco. Nell'incontro con Felice che prelude al loro inevitabile scontro finale, Oreste parla di sé come del re di una montagna di monnezza: con Nostalgia Martone ha giustamente voluto raccontare, filmare, mettere in scena un’altra città – una città della mente più che del cuore, un luogo del ricordo più che dell'istinto, del dolore più che del trauma – sancendo forse inconsapevolmente l’impossibilità di Napoli, così come di Felice Lasco, di sfuggire a sé stessa.
Dopo quarant’anni di lontananza Felice torna lì dov’è nato, il rione Sanità, nel ventre di Napoli. Riscopre i luoghi, i codici del quartiere e un passato che lo divora.