Provare nostalgia verso la luce, in fin dei conti, significa aggrapparsi al passato, tentare di cogliere qualcosa che sfugge e scivola fra le dita, un già-stato che pur avendolo vissuto non diviene mai familiare. Il passato sembra appartenerci, pensiamo di averlo sempre presente, immagazzinato in una zona remota della coscienza, proprio come accade in Inside Out, dove ogni ricordo è contenuto nel limite di una sfera: impeccabile, preciso, cumulabile.
Eppure, nonostante questa rasserenante convinzione, ogni volta che proviamo a recuperare un gesto, un’emozione, un’esperienza passata il buio sopravviene alla luce, la dimenticanza ottenebra il ricordo, la memoria diventa sfuggevole, fragile, e più cerchiamo di inseguire tale mancanza più la ricerca si esaurisce in una nuova fuga.
Già Chris Marker in Sans Soleil aveva cercato di catturare il ricordo e la sua brillantezza, salvo rendersi conto che la luce non si può racchiudere nel pugno della coscienza. E così come l’acqua fluirà dal palmo richiuso di una mano, allo stesso modo la luce del passato scorrerà al di fuori dai flussi coscienziali. All’uomo, però, è pur sempre concesso l’antidoto del ricordo, che è immagine di una traccia, impronta di un segno assente che apre tuttavia al sentimento di distanza temporale.
In questo consiste la “nostalgia della luce”: un prometeico tentativo di rivivere il passato nel presente, di rivivere la storia nella memoria che, a sua volta, innesca il circolo opposto, ovvero la nascita della memoria grazie alla storia. Un doppio cammino di ricerca della verità che porta con sé, scriveva Paul Ricoeur, «il temibile problema della frontiera tra la memoria e l’immaginazione, il ricordo e la finzione». Com’è possibile, in fondo, essere sicuri del ricordo?
Con Nostalgia della luce, lavoro che risale al 2010 ma distribuito in Italia, Patricio Guzmàn cerca di riflettere proprio su questi temi proponendo un lavoro dove la riflessività sovrasta l’intento documentaristico, tracciando un percorso filosofico che oscilla tra l’astronomia e la tragedia dei desaparecidos, due realtà così distanti che solo la luce, in tutta la sua velocità, è in grado di collegare. Il film si concentra sull’unica zona completamente arida della Terra, il deserto di Atacama, dove sorge uno dei più importanti osservatori astronomici sud-americani e dove, durante la dittatura di Pinochet, centinaia di migliaia di cadaveri sono stati sotterrati. Quasi come da contrappasso, quel deserto è uno dei luoghi più ricchi di storia dell’America meridionale: qui si trovano incisioni di pastori pre-colombiani risalenti all’anno 1000, gigantesche rovine Inca, così come un campo di concentramento, ormai abbandonato, risalente ai tempi della dittatura.
In tutta questa complessità fatta emozioni e di frammenti di storia, il contatto con l’accaduto diventa gesto estremo, sfuggevole, intimamente agognato. Guzmán concilia il macrocosmo con il microcosmo, la perdita dei propri cari con l’impossibile indagine sull’origine dell'universo, procedendo come sempre (e come nel successivo La memoria dell’acqua) per accostamenti, parallelismi e sovrapposizioni concettuali. In questo modo, prova a re-interpretare il presente, a dare un senso alla fioca luce che proviene dal passato, inaugurando una poetica dell’immagine il cui fine più alto è la rimembranza.
Il tentativo di Guzmán è quello di rimuovere la rimozione, di recuperare ciò che l’uomo ha deciso di ottenebrare, dando spazio sia alla sofferenza delle vedove che da anni abitano il deserto nella speranza di trovare resti dei loro amati sia alla ricerca scientifica degli astronomi, tra galassie nascenti e stelle morenti. Entrambe le indagini, in fondo, sono rivolte verso il nulla, verso luoghi sconosciuti, troppo lontani per essere illuminati ma non abbastanza bui per essere incompresi. Gli astronomi scrutano il passato per dare senso al presente, mentre le vedove dei desaparecidos ricercano qualche frammento del presente per dare senso a un passato intollerabile.
È questo, forse, l’unico modo per agguantare la brillantezza del senso, per farlo proprio e avere coscienza del ricordo come ferita che splende per pochi secondi (l’esplosione di una stella, l’immagine dei propri cari), prima che ogni cosa ricade nell’oblio.
Nel deserto di Atacama, in Cile, sono installati i telescopi più potenti del mondo. Mentre gli scienziati esplorano le immensità del cielo, gli archeologi sondano il terreno alla ricerca delle tracce delle popolazioni precolombiane. Tra gli uni e gli altri si aggira un terzo fronte di ricerca: i parenti dei desaparecidos massacrati sotto il regime di Pinochet, a caccia dei resti dei loro cari.