Le notti magiche sono un pretesto, la scenografia mobile sul fondo. La macchina ripescata dal Tavere all’inizio dell’ultimo film di Paolo Virzì, precipitata da un ponte al momento del rigore sbagliato da Serena nella semifinale persa contro l’Argentina e con dentro il cadavere di un produttore cinematografico, non è l’Italia di allora, perduta nel sogno di un Mondiale in casa che non si sarebbe vinto e già al tramonto della prima repubblica. Quella macchina che dalla strada precipita in acqua è il cinema italiano dell’epoca, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, che a ripensarci ora, grazie al paragone calcistico suggerito da Virzì, era molto simile alla nazionale campione del mondo uscente quattro in prima in Messico, gloriosa e invecchiata male, a cui nessuno aveva saputo e avrebbe potuto dire nulla.
Semmai, la nazionale giovane, bella e purtroppo sconfitta di Italia '90 è incarnata nel film dai suoi giovani protagonisti, tre giovani sceneggiatori finalisti al Premio Solinas che si trovano catapultati nel mondo delle loro ambizioni. Come all’epoca il venticinquenne Virzì e un poco prima la sua co-sceneggiatrice Francesca Archibugi (l’altro sceneggiatore, Francesco Piccolo, viene invece da altre scuole e altri ambienti), entrambi allievi di Scarpelli al Centro sperimentale ed entrambi cresciuti nella lunga ed estenuante vecchiaia del cinema italiano di serie A e serie B, grande e grandissimo per decenni e nel 1990, come si vede e si dice a più riprese nel film, ancora guidato da reduci ormai vecchi e stanchi, «ma ancora pieni di contratti», con al seguito schiere di anonimi sceneggiatori addestrati, pletore di leccapiedi, il solito tavolino alla solita osteria di sempre e il tempo da passare a discutere, litigare, cazzeggiare di fronte a una partita qualsiasi dei gironi dei Mondiali.
Sullo sfondo di Notti magiche, la ricostruzione del set dell’ultimo film di Fellini, La voce della luna, e la visione in campo lungo delle riprese dell’ultima scena di quel film, con la sua famosa e già allora un po’ trita battuta finale, «Se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse potremmo capire», fanno da pietra tombale a una stagione (non solo cinematografica) che è stata sì grandissima, ma che ha commesso il peccato più grande, quello di tenersi tutto fino alla fine, fino all’ultimo, e di essersi mangiata i propri figli.
Tutto vero, tutto esagerato, tutto vissuto e tutto ricostruito, un po’ andando memoria, un po’ inventando di sana pianta, un po’ giocando al gioco dei riconoscimenti, dei camuffamenti e del name dropping selvaggio tipico dell’ambiente (Furio, Leo, Suso, Ennio, Giovanna, e poi quel regista cieco che è Antonioni e quel produttore cafone che forse è Cecchi Gori e quell’altro regista fallito che vai a capire chi sia…) e un po’ ponendosi come allievi, figli traditi, figli prodighi, testimoni, commentatori ironici e benevoli.
Perché la cosa interessante di questo ritorno alle origini da parte di Virzì, attraverso la sua riflessione non usuale sulla stagnazione del cinema italiano all’inizio della sua conclamata fine, è proprio la posizione che il regista assume. Non tanto per le sue ragioni personali e professionali, ma per l’esito del suo discorso: i suoi protagonisti sono mangiati dai tanti Saturno che incontrano, fallendo così nel loro sogno, ma lui, Virzì, il giovane sceneggiatore e futuro regista di allora no; lui sarebbero diventati parte di quello stesso ambiente ed erede di quella stagione. E se per sua stessa ammissione non è stato in grado di coglierne l’eredità, o l’ha superata dando al cinema italiano un’anima diversa ma non altrettanto riconosciuta, il declino o il cambiamento saranno anche un poco colpa sua. E dunque Notti magiche è la cronaca semiseria di un fallimento generazionale, di un autoinganno coltivato e a un certo punto dimenticato per proseguire tranquilli lungo la propria strada e nel frattempo riprendere, cambiare, ricordare, stravolgere, tradire.
I tre futuri sceneggiatori rampognati dal commissario perché incapaci di capire la storia di cui sono protagonisti, sono per davvero Virzì, la Archibugi e chiunque altro abbia cominciato in quegli anni e in quell'ambiente a fare cinema: il messaggio nemmeno troppo in codice è per loro, non al cinema italiano di oggi, per quanto lanciato a fine film da una ventenne.
Dove Virzì va oltre l’autoriflessione è nelle cose che sa fare meglio, nel descrivere i personaggi più semplici e ingenui, trovando accenti di sincerità e freschezza in un film all’opposto segnato dall’artificiosità e della confusione delle situazioni, da una strana stanchezza specchio della malinconia felliniana dell’epoca e responsabile del tono fiacco di una storia incapace di sollevarsi dall'ironia del quadro d'ambiente (che per fortuna non è sorrentiano, ma proprio per questo manca d'ispirazione...).
Il richiamo a una dimensione popolare e salvifica mette però a nudo l'ambiguità dell’operazione: la soubrette e oca giuliva Giusy Fusacchia dimostra un amore sincero per il suo uomo (il laido e fallito produttore Leandro Saponaro, la vittima dell’omicidio iniziale) che nessuno si aspetterebbe; Katia, la madre del bambino di uno dei tre sceneggiatori protagonisti, il toscano donnaiolo Giovanni, smachera con la sua tenera ignoranza l’ipocrisia del potere cinematografaro (e per ironia della sorte arriverà a farne parte); la fidanzata del saccente e boccalone Antonino, l’altro aspirante sceneggiatore protagonista, nella fogna di Roma ci resta giusto una manciata di minuti; mentre la figlia della nevrotica e sfortunata Eugenia, la terza protagonista, alla fine dimostra addirittura di possedere il segreto dello sguardo e del fare cinema.
Queste quattro donne, queste anime diverse, sono gli altri, quelli fuori dall’ambiente o quelli miracolosamente immuni al suo putridume, i puri di sguardo e forse di cuore. E proprio per questo, come dice il commissario, sono gli spettatori, il pubblico che vede, capisce e sa. Non quelli che il cinema lo fanno, e che per sfortuna o incapacità sono troppo addentro le cose per vederle… Un po’ consolatoria, insomma, e pure un po’ semplice, come morale, per quello che vorrebbe essere un autoritratto con sberleffo, o forse una fantasia autoassolutoria, o magari un omaggio a una stagione o un j'accuse a se stessi, e finisce per non essere nessuna di queste cose.
Campionati del Mondo di Calcio Italia '90: la notte in cui la Nazionale viene eliminata ai rigori dall'Argentina, un noto produttore cinematografico viene trovato morto nelle acque del Tevere. I principali sospettati dell’omicidio sono tre giovani aspiranti sceneggiatori, chiamati a ripercorrere la loro versione al comando dei carabinieri.