Ci sono rimasto un po' male quando, al termine della visione – già di per sé faticosa – di The Pills - Sempre meglio che lavorare, è partita una canzone di Niccolò Contessa. Ci stava che il trio romano citasse una canzone dei Cani (Come Vera Nabokov) nel corso del film, ma l'associazione esplicita del cantautore con un film come questo, mi sembrava dissonante.
In fondo, a pensarci bene, le canzoni dei Cani (primariamente quelle di Glamour) e questo film parlano di cose molto simili, e vengono e vivono degli stessi ambienti, rigorosamente romani. Ma – senza tirare nemmeno in ballo una poetica strutturata praticamente inesistente – se le velleità, le paure, i fantasmi della crescita e della “normalità”, le illusioni e le reclusioni dal mondo, Contessa le racconta con una sincerità amara e spirito disincantato, offrendo una visione critica di una realtà, magari ripiegata tra le vie del Pigneto ma che occhieggia all'esterno, i The Pills sguazzano beati nel loro brodo autoreferenziale e narcisista.
Nel raccontare una storia che ha ben poco di generazionale (posso testimoniare che da almeno vent'anni esiste questa tendenza tutta romana al vivacchiare fancazzista pre- o post-laurea, fatta di caffè, birette, cannette e “progetti che non realizzeremo mai”), i The Pills non mettono in discussione nulla, men che meno loro stessi. Raccontano un mondo, certo, ma non lo mettono in discussione, e anzi ci sia accomodano ben bene, sprofondandoci dentro come a un divano sfondato: non mettono alcuna distanza critica tra la realtà che li circonda e in qualche modo li mortifica, e la loro edonistica rappresentazione. Ammiccano e glorificano attraverso una passivissima accettazione dello status quo, attraverso l'immobilismo: dal Santamaradona di Marco Ponti a oggi, non è cambiato nulla.
Anzi, in più c'è una fighetteria di fondo che non è certo quella “delle periferie” ma della colonizzazione delle stesse da parte di quella Roma Nord (magari in spirito) che ha sempre giocato a fare “l'alternativa”. Oltre il Pigneto, il nulla. Fuori dal raccordo anulare, il deserto. Milano è un luogo della mente, e il massimo dell'orizzonte possibile, per i The Pills è la parodia dei Muccino di Prati, altro perfetto esempio di ombelicalismo capitolino. L'ombelicalismo dell'ombelicalismo.
Vent'anni, e più, ha anche il citazionismo ostentato e sottopelle del loro stile. O perlomeno dello stile di questo film. Il postmodernismo è già passato, e i The Pills fanno oggi (e non agli stessi livelli) quel che si faceva all'inizio degli anni Novanta, da Tarantino in poi. Si mette nel frullatore tutto, da Le iene a Il cacciatore, da Diaz a Fight Club, dai Cani alla Dolce vita, e si spalma il pappone parodistico su una superficie patinata che vive dell'entusiasmo di chi non fa niente nella vita, di chi non vuole affrontare le responsabilità, e passa per via del Madrione, per il kebab e per le feste nei villoni, stuccando in questo modo le fratture di un racconto che procede per sketch, che di cinema ha ben poco, ma possiede a suo modo una paradossale fluidità.
Certo, il cinema è l'ultimo dei problemi. Nessuno si aspettava che Luca Vecchi (che dei tre pare comunque il migliore, e che non se la cava male con la macchina da presa) si rivelasse all'improvviso Orson Welles, ma che almeno potesse giocare un po' meglio a fare Kevin Smith sì. E che qualche risata, meglio se dissacrante ma non importa, potessero farla fare. Invece oltre al “tornare a essere coglioni”, alla sveglia a mezzogiorno meno un quarto, al parallelo tra il lavoro e l'eroina, alle battute sui bangla (di dubbio gusto), non si va.
A dispetto del loro proporsi come quelli che si spacciano per fighi ma che sono in fondo un po' sfigati e marginali, i The Pills appaiono furbamente vanitosi, orgogliosamente hispter, e in alcuni casi peccano di quella pigra arroganza supponente tutta romana che li porta ad ammiccare al loro circolo di amici e a risolvere tutto il loro film nella metafora sempliciotta della cicorietta: di quel che nella vita hai imparato ad amare crescendo.
Ora, non c'è certo da essere cattivi, se viene da citare ancora una volta il Contessa di Storia di un impiegato («Considerato che non sono un artista/ e con le velleità non ci si vive/ mi ritrovai con un lavoro vero/ uno di quelli proprio senza glamour»). Però, se vogliono continuare a inseguire le loro, di velleità, che i The Pills superino la linea d'ombra che hanno raccontato con banalità, facciano crescere ed evolvere il loro lavoro, e alzino gli occhi dai loro ombelichi, che si può essere simpatici cazzoni anche con un po' di consapevolezza in più e con orizzonti un po' più ampi.
Luigi, Matteo e Luca si conoscono da sempre, hanno quasi trent'anni e non hanno mai lavorato un giorno in vita loro. Eterni post-adolescenti, con alle spalle una laurea che non serve a niente e di fronte un panorama avvilente, i tre quasi adulti non più giovani preferiscono tirare a campare fumando sigarette, bevendo caffè e sparando idiozie seduti al tavolo della cucina. Resistono a tutto, anche al lavoro, pur di continuare a vivere come hanno sempre fatto.
Esordio cinematografico dei The Pills, gruppo comico italiano nato a Roma nel 2005 e composto da Matteo Corradini, Luigi Di Capua e Luca Vecchi.