Può un uomo attento alle piccolezze della natura, padre presente e fratello devoto, convivere, allo stesso tempo e nello stesso corpo, con un torturatore, fedele ai principi voluti dalle Leggi razziali? Può una donna essere tanto sfacciata e provocatrice, quanto impaurita? Può un soldato affidarsi ai valori osannati dal Nazionalsocialismo, pur arrivando a concretizzare i propri dubbi sotto forma di fantasmi?
Le risposte che Paradise di Andrej Končalovskij, leone d’argento per la miglior regia alla Mostra di Venezia 2016, tenta di dare a questi interrogativi sono tutte positive. Lontano dal voler condannare e/o – al contrario – assolvere, umanizzandolo, ciò che il nazismo e la Shoah furono, il film porta in scena la pluralità umana. Nessuno nasce demone, nessuno sa essere angelo.
Ecco dunque che i tre protagonisti principali, Jules, un commissario francese, Olga, una donna russa accusata di aver nascosto due bambini ebrei e per questo rinchiusa in un campo di concentramento, e Helmut, un soldato tedesco delle SS, non posso parlare allo spettatore che da un limbo. Seduti a un tavolo, in una stanza spoglia, in un non-luogo privo di coordinate spaziali e temporali, i tre vengono messi di fronte alla propria esistenza, alle sue contraddizioni, ai successi e agli sbagli. Già morti, come spettri in un ipotetico aldilà, mostrano allo spettatore luci e ombre delle loro esistenze. A fare la differenza, tuttavia, sarà solamente l’ammissione di colpa.
Jules giustifica e auto-sabota le proprie azioni passate, tentando di convincere tutti - e se stesso – di essere “cosa altra”, distinta e distante dagli orrori stragisti, dalle punizioni corporali della Gestapo. Unico rimpianto, essere morto di fronte al figlio. Helmut attutisce le proprie scelte con l’ideologia, con un “falso-paradiso”, che finisce per divenire il suo unico sguardo sul mondo, facendo svanire anche quei fantasmi, quelle sensazioni inconsce di “qualcosa che gela il sangue”, mettendo a tacere cultura e coscienza. La sola a ottenere l’assoluzione – un po’ grossolanamente e troppo religiosamente rappresentata per mezzo di una divina voce fuori campo e di una luce intensa – potrà essere Olga, colei che si sacrifica per l’altro.
Partito dunque da un progetto interessante e da un’idea di paradiso molto più ampia del suddetto termine in maiuscolo, Paradise finisce per perdere se stesso nell’abitudine confortevole, nel cliché: il paradiso dei titoli di testa, contrastato dalla violenza; il paradiso scritto per metà dalla prigioniera russa su un muro del campo; il paradiso nazista, vengono tutti messi da parte – e sviliti – in nome di quella luce che riconduce il concetto su un binario più semplice, cauto e noto.
Se non si può non ripensare a Primo Levi nel sentir recitare Dante in un campo di sterminio (benché nel film si citi direttamente l’inferno, smorzando il contrasto), così come non si può non apprezzare l’impronta documentaristica “finto-originale” data dal bianco e nero, dalla scelta dei 4:3 e dai “problemi” d’immagine, o ancora, non si può non cogliere un omaggio al cinema del passato – russo e non – in scene che richiamano alla memoria Ėjzenštejn e il cinema dei telefoni bianchi, nella matassa finisce per comparire qualche nodo di troppo.
Che fosse inevitabile, da parte di Končalovskij, ripiegare nel proprio sguardo soggettivo, nel proprio bagaglio culturale, nelle proprie categorie di giudizio?
Il film narra di tre storie incrociate durante la Seconda Guerra Mondiale: una donna aristocratica russa rinchiusa in un campo di concentramento per aver nascosto a Parigi due bambini ebrei; un poliziotto francese collaborazionista; infine, un ufficiale tedesco delle SS.