Nella saga di Nightmare, quello che accadeva in sogno alle malcapitate vittime di Freddy Krueger generava un’eco (spesso coincidente con la dimensione onirica, comunque sempre letale) anche nella realtà. Quali sono, oggi, i riflessi sulla realtà dei nostri post su Facebook o dei video caricati su YouTube? Quali le conseguenze di un insulto scritto su un social network, specie ai danni di personaggi celebri (il bersaglio più recente è Umberto Eco, reo di aver detto che i social media danno voce a legioni di imbecilli) o di un filmato che diventa virale talvolta al di là delle intenzioni di chi lo ha girato e messo in rete? E, soprattutto, che peso ha e come si può quantificare la responsabilità individuale una volta scagliata una pietra (un post), poi raccolta e ancora scagliata (condivisa), da una massa di utenti dall’identità incerta?
Sono riflessioni che nascono di fronte a Unfriended, l’horror di Levan Gabriadze in cui cinque teenager iperconnessi diventano vittime di stalking da parte di un utente anonimo, intenzionato a vendicare una loro coetanea suicidatasi per non aver sopportato la vergogna di un video che la mostrava ubriaca, probabilmente abusata, riversa al suolo e insozzata dei suoi stessi escrementi. Tutto quello che succede in Unfriended è visibile allo spettatore unicamente attraverso le schermate del Mac di una dei ragazzi; mentre i personaggi sono mostrati tramite conversazioni su Skype che coprono l’intera durata del film o, al più, grazie alle foto profilo su Facebook o iMessage.
Così, quello che può sembrare un gioco virtuosistico portato alle estreme conseguenze (la scommessa, comunque vinta, di intrattenere con un film in cui i protagonisti non abbandonano praticamente mai le rispettive postazioni di collegamento e la narrazione è scandita dal passaggio da un’app all’altra) si trasforma (oltre le sue reali intenzioni?) in una riflessione sui confini soprattutto etici della virtualità: emerge così la descrizione, terribilmente realistica e calzante, di un mondo in cui tutto è relativo (e relativizzabile), in cui il concetto stesso di responsabilità si parcellizza fino a farsi labile come un miraggio, e dove la colpa è suddivisa in un’ondata di quote millesimali e di difficile attribuzione (è più colpevole chi posta il video, chi lo condivide, o chi lo commenta con ferocia?).
Non poco, insomma, per un film distribuito in Italia come il classico horror di fine stagione, da guardare come possibile rimedio all’afa estiva.