Freddie è una venticinquenne nata in Corea ma adottata e cresciuta da una famiglia francese, e nella capitale coreana ci finisce (forse) per caso, involontariamente, così come senza troppa convinzione si ritrova alla Hammond, una società che gestisce le adozioni internazionali, e ha gestito anche la sua, senza numero di pratica o appiglio, ma (non) casualmente con una foto che sul retro ha un numero, e che consente in pochi minuti di risalire al suo dossier, e localizzare i suoi genitori biologici: “ma perché l’ha fatto?”, domanda, quasi seccata, all’impiegata impassibile, per poi cercare di capire immediatamente i meccanismi possibili di ricostruzione delle relazioni con la famiglia di origine.
Lontana da casa, senza riferimenti, personaggio volubile e mutevole, mossa da un pensiero e dal suo contrario, Freddie è una persona di cui, da subito, non si capisce quanto sia stata volontariamente catapultata alla ricerca delle proprie radici. Significativamente, il titolo internazionale del secondo lungometraggio di finzione di Davy Chou sarebbe dovuto essere All The People I’ll Never Be, un titolo bellissimo, perfettamente aderente al problema di Freddie con la propria identità, alla relazione con il proprio sradicamento, al confronto costante con l’altro, con la (presunta) felicità altrui, e la necessità di indossare una maschera scontrosa, altezzosa, ostile, reinventarsi in un contesto dove solo il suo aspetto esteriore, superficiale è conforme a quello di chi la circonda. Poi anche per l’inglese, e per l’italiano, si è scelto Return to Seoul, Ritorno a Seoul, evidenziando il ritorno della protagonista al proprio paese di nascita, la Corea; ma si sarebbe potuto intitolare anche Lost in Seoul, a giudicare dallo smarrimento, appena dissimulato, della ragazza, e in riferimento a tutto ciò che non viene detto, non viene compreso, rimane incastrato nelle pieghe di un uso del francese, che per gli interlocutori coreani diventa inevitabilmente meccanico e farraginoso.
Davy Chou, nato in Francia in una famiglia cambogiana che ha fatto la storia del cinema del proprio paese prima dell’avvento di Pol Pot, ha già percorso, a suo modo, un lavoro di ricostruzione dell’identità, della propria personale e famigliare, ma soprattutto di quella collettiva, con il magnifico Le Sommeil est d’or, la storia in absentia di una cinematografia perduta per sempre. E nel farlo assumeva un ruolo fondamentale il paratesto, quel che rimane delle affiches, qualche frammento di film, qualche foto, le sale, gli spazi trasformati in altro e soprattutto le canzoni, con il loro potere evocativo incredibile. Qui, nella primissima scena, Freddie sente la canzone anni ‘60 che la ragazza alla reception del B&B sta ascoltando; la sente nel senso che sembra per un attimo smuoverla sotto la superficie, altrimenti imperturbabile se non strafottente.
Chou scrive la storia di Freddie con l’amica Laure Badoufle, partendo dall’esperienza autobiografica della stessa. E però, la forza del film e della scrittura, risiede nel rifuggire con convinzione gli stereotipi del film “tratto da una storia vera” e tanti meccanismi del melodramma a cui si ricorre fin dal feuilleton ottocentesco per le vicende di abbandono e ricongiungimento. Per il personaggio di Freddie la scelta è caduta su un’amica, un’esordiente assoluta, Ji-Min Park, che invece a Seoul ci è nata, ed è arrivata in Francia da bimba con i suoi genitori; prima di essere avviata al cinema Park era artista visiva, e non aveva nessuna intenzione di diventare attrice, ma è difficile pensare che il sistema-cinema francese la lasci tornare ai suoi acrilici su latex e paillettes. Nel film di Chou, effettivamente, è il volto stesso di Park a farsi tela emotiva, supporto per variazioni minimali; in più di un’occasione ne filma il profilo regolare, la superficie di porcellana, pronta a incresparsi e a richiudersi, a diventare maschera citazionista (quando riappare come femme fatale in nero, per esempio) per non lasciare trapelare mai davvero il “mistero” che nasconde, la frattura irreparabile che un doppio sradicamento provoca in una persona consapevole di essere stata abbandonata alla nascita. Freddie non è apatica, è frenata e spericolata al tempo stesso; di sicuro non è simpatica, anzi, in più di un’occasione è sgradevole, se non odiosa, ed è un plus gigantesco, nell’economia di una narrazione che conduce comunque lo spettatore a seguire l’intreccio malgrado la sua protagonista. “Sei una persona molto triste” le dice ad un certo punto, rassegnata, l’amica Tena.
Altro livello di scostamento dagli stereotipi del genere, gli spazi. Se, come dicevamo, in Le sommeil est d’or gli spazi, modificati, sfigurati dalla Storia diventavano protagonisti di un’assenza, in Ritorno a Seoul, che procede per ellissi temporali, gli spazi urbani continuano a essere correlato, umido e notturno in molti casi, della solitudine di Freddie, che almeno due volte si risveglia accasciata in un vicolo senza avere idea di come ci sia finita; è altrettanto difficile ricostruire gli spostamenti verso Jeonju e in campagna, per incontrare il padre biologico e la sua famiglia, sempre filmati sul volto della giovane e di chi l’accompagna. A maggior ragione funzionerà, nel finale, la scelta di chiudere nella campagna (rumena), su un’altipiano, in completa assenza di riferimenti geografici e linguistici, giusto un hotel in mezzo al nulla, con un pianoforte.
Dicevamo già prima del ruolo della musica, anche della prassi esecutiva: Freddie è (stata) musicista. Tra le prime scene, Freddie fa ai propri ospiti una tirata sul sight reading, la lettura a prima vista di una partitura musicale; vuole subito dare una lezione di come ci si butta corpo a corpo in una situazione incognita così come il buon musicista riesce a fare con uno spartito che vede per la prima volta, e forse è qualcosa di molto europeo, imprevedibile per un certo tipo di mentalità, di rigidità: la ragazza si versa da sola del soju, “perché non si fa?” domanda ai due convitati, “perché è come se non ci si prendesse cura di te” le rispondono, e lei, che è abituata a prendersi cura di sé da sola, tracanna il bicchiere; dopodiché continua il sight reading della situazione, e contro ogni regola, si alza dal tavolo, si siede con un altro gruppo di giovani, invita gli amici con cui era arrivata, se ne aggiungono altri, e fa decadere temporaneamente il costume orientale che prevede l’esclusività di relazione nelle uscite con amici. Forse, sembra dirci Chou, anche noi spettatori dobbiamo affrontare il suo personaggio come un esercizio di sight reading, capire progressivamente quali accenti, quali sfumature, si nascondono dietro a ogni nota della sua partitura; e forse tra le righe ci sta dicendo che quello è l’esercizio che lo spettatore dovrebbe sempre cercare di fare.
Ma, soprattutto, per Freddie, i nodi vengono al pettine proprio in un esercizio di sight reading, questa volta nell’accezione comune, autenticamente musicale: sul pianoforte, nell’hotel rumeno che dicevamo, qualcuno ha lasciato lo spartito di “Ich ruf zu dir, Herr Jesu Christ” di Bach, e il suonare a prima vista, incerto della giovane, rotto da una situazione emotiva solo apparentemente sotto controllo, si carica del significato stesso del brano, di quello armonico più ancora che di quello testuale. Musica e conflitto interiore, finalmente, mélos e drama.
Freddie, 25 anni, impulsiva e testarda, torna in Corea del Sud per la prima volta da quando, appena nata, è stata adottata da una coppia francese. Qui, inizia a cercare i genitori che l’hanno abbandonata. Tra incontri, nuove amicizie e l’ombra di una madre biologica che non vuole farsi rintracciare, la ragazza si trova immersa in una cultura molto diversa dalla sua e intraprende un viaggio nel viaggio che la porterà in direzioni del tutto inaspettate. Per scoprire che forse questa è la vita: incontrare l’inaspettato, cavalcarlo, essere tutte le persone che avresti potuto essere.