Fioravante (John Turturro) è un delicato fioraio part-time, uomo che invecchia dolcemente e si esprime nei morbidi movimenti delle mani che intrecciano ikebana.
Murray (Woody Allen) è un libraio costretto alla chiusura da un mondo che sembra aver dimenticato il senso simbolico del frusciare dei vecchi volumi, perso dentro un’immotivata frenesia di futuro.
Crisi economiche e crisi esistenziali viaggiano parallele in Gigolò per caso, opera quinta di Turturro, annegata nei colori autunnali di una Brooklyn arrossata dall’Indian Summer, elegia languida di un mondo – città, uomini, donne, sentimenti, valori – che ormai non esiste più. Fioravante e Murray sono panda sopravvissuti alla catastrofe, al declino di un mondo cavalleresco soppiantato dalla fretta.
Murray, più burbero e goffamente scaltro, offre a Fioravante l’occasione di qualche guadagno extra e una potenziale iniezione di autostima: fare il gigolò – anche questo un mestiere metaforicamente “vecchio” – per sedare le voglie di ricche signore bisognose di qualche nuova vibrazione.
Gigolò per caso, con il suo spirito frivolo da operetta, nasconde un cuore antico sotto la patina di malinconica farsa socio-sentimentale. Fioravante rispolvera, in luogo del culto esteriore per una bellezza ormai plastificata dal contemporaneo, i gesti del vecchio cavaliere, e con essi conquista le anime, oltre che i corpi, delle sue clienti. Fino a quando la vedova di un rabbino non bussa alla sua porta con occhi dolenti e un oppresso bisogno di carnalità.
Turturro pennella i suoi ritratti femminili con innegabile tenerezza ma il risultato è balordo e goffo: le donne sono solo proiezioni ipotetiche, fantasie tutte maschili che assumono rigidità strettamente funzionali. In fondo, nello sguardo da galantuomo del regista, le sue protagoniste sono pure femmine trascurate a cui basta una carezza donata con languore per risvegliare i sensi, calorose astrazioni in cerca d’amore, interruttori sensibili alle attenzioni maschili e mai soggetti decisionali.
Una concezione anacronistica del desiderio femminile che si rispecchia nell’ostentazione demodé, nella santificazione di tutto ciò che può rappresentare un vago romanticismo vintage: fiori, libri, carezze, musica, cibo.
Una mistica della lentezza e della manualità seduttiva che potrebbe anche intenerire se non fosse così monocorde. Gigolò per caso è, in fondo, una rivendicazione orgogliosa ma flebile di un passato dorato che sfuma subito nel rimpianto, incapace di lasciare tracce nella memoria.
Fioravante e Murray, due amici per la pelle in condizioni economiche precarie, per sbarcare il lunario decidono di cimentarsi con il mestiere più antico del mondo. L'uno nei panni di un gigolò, l'altro nel ruolo di manager. Con il nome d’arte Virgil, Fioravante si destreggia tra un ménage a trois con due avvenenti signore alla ricerca di emozioni forti e gli incontri ben più casti con Avigal, vedova di un rispettato Rabbino, rimasta sola con i figli, i ricordi di una vita vissuta nel mondo chiuso della comunità chassidica e un disperato bisogno di scoprire cose nuove. Mentre Fioravante viene messo in crisi dai sentimenti che quest'ultima suscita in lui, ignaro della gelosia di Dovi, chassidico innamorato di lei fin da quando era ragazzo, Bongo (pseudonimo di Murray) scopre che non è poi così facile essere un protettore.