L’Alabama degli anni sessanta non era un paese per neri.
Nel 1963 il Ku Klux Klan aveva fatto saltare in aria una chiesa battista a Birmingham, uccidendo quattro ragazzine. L’anno dopo Martin Luther King ricevette il Nobel per la pace e da subito usò il suo potere mediatico per trattare con il presidente Lyndon B. Johnson una riforma federale delle norme per il diritto di voto che mettesse fine alle discriminazioni razziali perpetrate impunemente dai funzionari dei singoli stati. Dopo l’ennesima umiliazione subita da una donna, Annie Lee Cooper, a cui venne ripetutamente negata l’iscrizione alle liste elettorali, il reverendo King con un manipolo di attivisti sbarcò a Selma per organizzare una marcia di protesta.
La preparazione della marcia, osteggiata sia dal potere locale, inquieto per l’agitarsi dello spettro dei diritti civili in quel che restava del Sud schiavista, che da Johnson, impegnato in ben altre priorità tra cui il futuro disastro militare in Vietnam, diede vita a una reazione a catena destinata a cambiare per sempre la faccia democratica dell’America.
Selma, diretto dalla regista afroamericana Ava DuVernay, ricostruisce quei giorni alternando scene madri rigonfie di musica enfatica e brutali poliziotti picchiatori alle trattative affannose che avevano luogo dietro le quinte, lontane dai riflettori dei media, dove l’ambiguità politica si rispecchiava nella necessità di compromessi.
E se la retorica progressista appesantisce le sequenze di massa, girate con diligenza ma senza originalità, è proprio nello sguardo gettato sulle zone d’ombra della politica americana che Selma trova una sua più compiuta ragion d’essere. I faccia a faccia tra King, Johnson, l’osceno governatore dell’Alabama Wallace e i vari consiglieri e militanti, hanno una tensione giusta, un ritmo interno, una pulizia stilistica che assecondano la costruzione drammaturgica del film.
Quel che ne esce è un ritratto di King allo stesso tempo sfaccettato e monocromo: un personaggio che, pur raccontato attraverso una positività tetragona a volte troppo simile a quella di un santino da portafoglio, mostra una moderna consapevolezza dell’agire politico e un’intraprendenza furibonda nascosta sotto l’apparente calma monastica.
La non violenza implica una violenza altrui – da ribaltare e utilizzare a proprio vantaggio – e King sapeva che le guerre non si vincono senza perdite. Certo, la narrazione risolve frettolosamente alcuni possibili punti di frizione – il “rivale” Malcolm X viene quasi ricondotto all’ovile per poi essere rapidamente liquidato – e la netta, e giusta, divisione tra buoni e cattivi viene sottolineata non senza ridondanze.
Selma esprime una posizione ovviamente condivisibile in una delle lotte fondanti di ogni ideale democratico – quella per l’uguaglianza, un diritto così ovvio da non essere ancora pienamente acquisito – e si costruisce come un film didattico, orgogliosamente obamiano, capace di smuovere le coscienze come un potente volantino illustrativo, senza perdersi in altre ambizioni. Un compito che, va detto, assolve in maniera dignitosa quanto prevedibile.
Ambientato negli Stati Uniti, durante la presidenza Johnson, il film racconta la marcia di protesta che ebbe luogo nel 1965 a Selma, Alabama. Guidata da un agguerrito Martin Luther King, questa contestazione pacifica aveva lo scopo di ribellarsi agli abusi subiti dai cittadini afroamericani negli Stati Uniti e proprio per la sua natura rivoluzionaria venne repressa nel sangue.