Esistono film “summa” nella carriera di un regista, alcuni che ne compendiano l’essenza stilistica e altri che, senza compiacimento referenziale, ricapitolano storie, personaggi, piccole ossessioni di un percorso autoriale, in una rivisitazione declinata al presente. Scomode verità dell’82enne Mike Leigh si situa in un campo intermedio, dopo oltre mezzo secolo di cinema; equilibrata anche la commistione di toni e generi, sfumata tra umorismo al vetriolo e dramma intimistico in una scrittura limata, dove la parola fagocita tutto oppure si annichilisce nel dolore.
Ritornano la middle class di periferia londinese, il dissesto famigliare per la scomparsa materna e l’attrice di Segreti e bugie (Palma d’oro nel 1996), Marianne Jean-Baptiste. Due famiglie giamaicane imparentate, scosse dall’ingombrante personalità di Pansy, casalinga astiosa e polemica, con un marito remissivo e un figlio mesto e disoccupato; d’altra parte la sorella di lei, Chantelle, parrucchiera briosa e madre affabile. La voce rissosa di Pansy si scaglia contro chiunque senza inibizioni, dai parenti a una commessa, dalla dentista a un passante, suggerendo origini profonde, fino a una crepa manifesta durante una festa, dove il vuoto della perdita e il rimosso di gioventù lacerano un animo accartocciato tra immobilità a letto, idiosincrasie ed esaurimento nervoso.
Il focus di Scomode verità si schiude con tocchi misurati ma non delicati, quando l’irruenza di Pansy, scrutata dallo sguardo antropologico minimalista di Leigh, si inquadra prima tra gli spigoli acuminati della black comedy, calibrata su un personaggio verboso, travolgente e non maneggevole, poi nelle reticenze che svelano in punta di piedi un ritratto del lutto non elaborato. Un’opera che filtra gli squilibri affettivi del contesto domestico di Segreti e bugie nella ribellione contro il mondo di Naked, di cui eredita l’ironia bruciante e il baricentro di contrari, tra asperità e tenerezza, ma senza quel pessimismo sociale iconoclasta.
Dismesso, per anacronismo, anche il guizzo antiborghese di Belle speranze, Scomode verità (Hard Truths, altro titolo dal retrogusto dickensiano) capta un odierno male di vivere, un’altra rabbia trasversale, più farraginosa e amorfa di quella generazionale degli angry young men britannici (conosciuta da Leigh), rigurgitata sui social, che il regista preferisce trasporre nella rarefazione introspettiva di un’anima semplice, non conciliata con i convenevoli e il buonismo d’accatto. Un affondo psicologico ostico, nel nitore uniforme della fotografia di Dick Pope, in ossimorico richiamo a La felicità porta fortuna e alla sua spumeggiante e buffa protagonista interpretata da Sally Hawkins; una radiografia della depressione che si inoltra fino alla sua ineffabilità priva di motivazioni (“Perché non ti piace la vita?”.“Non lo so.”).
Qui però si innesca il cortocircuito di Scomode verità, che imbastisce una comprensione del personaggio senza una sua spontanea conoscenza, che troppo confida nella raffinatezza dei sottintesi e delega la stridente presa empatica alla performance millimetrica e vibrante di Marianne Jean-Baptiste, discostandosi dalla patologia di Pansy, dalle sue cicatrici e quindi dalle nostre. Il finale non risparmia un’elargizione di grazia, concessa al figlio, in un retorico sentimentalismo che sfida la cifra realista praticata dal regista, per poi sterzare in una svolta cieca, irrisolta. Un piccolo, screziato, ma non marginale film, maestro Leigh.
Pansy, una casalinga schiacciata dalle sue paure e in conflitto costante con il marito e il figlio, si rinchiude sempre più in sé stessa. Sarà il confronto con la sorella Chantelle, più solare e indipendente, a riaprire vecchie ferite, ma anche a offrirle una possibilità di rinascita.