TIR è un film sulla solitudine: la solitudine di un uomo di fronte alla fragilità delle proprie decisioni.
C’entrano sì i camion, la strada, i chilometri, la stanchezza, le distanze e il tempo dilatato all’infinito. Prima, però, c’entrano le scelte di vita, i calcoli, l’ambizione.
Quelli di Branko, il camionista sloveno protagonista, sono calcoli precisi: a casa ha lasciato un lavoro da insegnante, una moglie, un figlio, un nipotino, ed è andato a guadagnare tre volte tanto a bordo di un TIR, trasportando merce per un’azienda italiana e rimbalzando da una parte all’altra dell’Europa.
Italia, Spagna, Svezia, Ungheria, chilometri come parole, noia come unica compagnia, ma non c’è distanza che tenga, non ci sono gelosia, tristezza o nostalgia che valgano più della speranza di garantire un futuro migliore alla propria famiglia, nonostante il presente sia di attesa e di eterno passaggio.
E Tir è anche questo, un film di passaggi e di attese. Branko vive sospeso, attraversa strade che sono cerniere, si ferma in zone che non sono luoghi ma spazi da occupare e poi liberare. La macchina da presa è sempre su di lui, mai verso ciò che sta al di là dei finestrini, la strada è scontata, un tragitto cieco, la decisione di una voce al telefono o di un navigatore.
Per Fasulo è soprattutto un palcoscenico, un banco di prova dove sperimentare lo scontro fra costruzione e casualità, fra recitazione e reazione istintiva all’imprevisto.
Perché TIR è una sorta di performance deliberata (gratuita, forse), un ibrido che parte dalla creazione di un personaggio (interpretato dall’attore Branko Završan) e prosegue con il suo inserimento in una realtà da attraversare e conoscere, macchina da presa in mano e un canovaccio da seguire o stravolgere, chilometro dopo chilometro, consegna dopo consegna, in cinque anni di lavorazione, di riprese e montaggio, tra viaggi sfiancanti, conversazioni fra colleghi, pasti alla guida, docce a bordo strada, momenti di grazia strappati a un mestiere da cani.
Da questa tensione, che nel film si respira in modo un po’ forzato, gratuito per l’appunto, nasce però il ritratto autentico di un uomo solo e dubbioso, un traghettatore in fondo innamorato della propria indipendenza e per questo condannato a una vita in cui ogni approdo è l’inizio di un nuovo viaggio.
Senza meta, senza sosta, verso un futuro che difficilmente potrà arrivare.
La storia di Branko, un ex professore di Rijeka, che da qualche mese è diventato camionista per un’azienda italiana. Una scelta più che comprensibile: adesso guadagna tre volte tanto rispetto al suo vecchio stipendio d'insegnante. Eppure tutto ha un prezzo, anche se non sempre quantificabile in denaro. Da piccoli ci dicevano: «Il lavoro nobilita l'uomo». Ma oggi sembra diventato vero il contrario: è Branko, con la sua efficienza, la sua ostinazione, la sua buona volontà a nobilitare un lavoro sempre più alienante, assurdo, schiavizzante...