Fare un film sulla strada, quella stessa strada esaltata come sinonimo di libertà e ribellione da Jack Kerouac, è sempre un’operazione nostalgia, quando non addirittura una pratica demodé. Farlo su una banda di motociclisti, a più di settant’anni da Il selvaggio e a oltre quaranta da The Loveless, rischia di essere considerato passatismo. Incurante di questo e seguendo una sua personale folgorazione dovuta all’incontro casuale con un libro fotografico sulle gang di bikers degli anni Sessanta pubblicato da Danny Lyon, Jeff Nichols ha concepito e realizzato il suo film, cercando di rendere prospettico il suo sguardo e triplicandolo, di fatto. The Bikeriders, infatti, lavora sulla sintesi di tre differenti livelli, le fotografie originali del reportage fonte di ispirazione (e che si vedono durante i titoli di coda), l’inevitabile riferimento a un filone (o sarebbe meglio definirla una sottocultura?) di teppaglia motociclistica emarginata e talvolta considerata rivoluzionaria rispetto al filisteismo borghese e, infine, ponendosi prudentemente a lato di qualunque ipotesi di ammirazione filtrando tutto attraverso la narrazione del personaggio di Kathy (Judie Comer), la moglie disincantata di uno dei membri più carismatici della banda (Benny, interpretato con fare languido e scorato da Austin Butler).
Il risultato è una vicenda di progressiva caduta e di mancata redenzione, la parabola di un’epoca in (inevitabile) dissolvimento girata con un obiettivo Kodak da 35mm per assumere una grana indie che rimandi direttamente al periodo dei biker-movies, quando Roger Corman, dodici anni dopo Marlon Brando, riprese con I selvaggi tutta l’iconografia del ribelle in giubbotto di pelle e s’inventò un abbozzo di genere che fu il viatico per la successiva nascita del Road Movie con Easy Rider, considerato il perfetto punto di confluenza e passaggio. Rispetto al modello e perfettamente consapevole di un necessario passaggio di stato, Nichols riempie il vacuo nichilismo dei biker-movies svuotando paradossalmente la strada. Privandola della funzione di scenario privilegiato delle scorribande dei motociclisti, cancellandone la connotazione di palcoscenico d’azione di cui si nutrivano avidamente i film del filone. Sfilacciandone la funzione connettiva tra una malefatta e l’altra, limitandola al suo preciso e unico scopo, quello di creare l’epifania del gruppo, il preciso momento in cui i Vandals compaiono compatti rombando, generando stupore, timore e tremore nelle gente comune, senso di appartenenza, forse anche ammirazione, voglia di emulazione, sottolineati da precisi piani di reazione e da un ralenti che sarebbe pacchiano, se il fine non fosse quello dichiarato.
L’epifania in The Bikeriders è funzionale al concetto di identità, su cui Nichols insiste fin dalla prima scena del film. In un racconto in cui tutto è narrativamente disossato, nel quale il tempo scorre cronologicamente per mostrare soltanto una drammatica involuzione delle aspirazioni e la mesta parabola di disgregazione del club, ciò che conta è la caratterizzazione dei personaggi. Presentati dapprima ironicamente, fronte alla cinepresa come se fossero l’animazione delle fotografie di Danny Lyon, poi funzionali al mélo allestito da Nichols, i motociclisti sono le tessere di un mosaico composito in cui ogni pezzo è legato inestricabilmente agli altri per esaltare il concetto di gruppo. La drammatica dissoluzione dei Vandals, più che per l’ingresso di membri inaffidabili, reduci sciroccati del Vietnam, criminali e tossicodipendenti, avviene perché al concetto di identità comunitaria si sostituisce progressivamente un principio di egoistico di individualismo che elegge a feticcio il proprio corpo a scapito del bene comune (come fa il giovane sfidante di Johnny dopo il duello: mostra se stesso davanti ai due membri dei Vandals rimasti nell’automobile).
Non è un caso che Benny, che pur è uno dei tre centri attorno ai quali ruota la vicenda, compaia nel film al bancone di un bar inquadrato di spalle, con la toppa dei Vandals cucita sulla schiena in risalto, precisa scelta che Nichols ripeterà alla fine [attenzione spoiler!], prima dell’abbandono definitivo del club, quando il personaggio tornerà a casa dalla moglie Kathy. Benny, nonostante la sua importanza all’interno delle dinamiche del film, è solo una parte del tutto, un’icona sul giubbotto, una figura che trova la sua realizzazione solo nel completamento della volontà di Johnny (un volutamente infiacchito Thomas Hardy), il fondatore della banda, tagliato nel nome e nell’etica sul Brando di Benedek. Benny è rivelato come individuo solo davanti a Kathy, l’unica che riesca a vederlo per quello che realmente è come persona, non come membro dei Vandals. Rispetto al James Dean che richiama, Benny, a dispetto delle apparenze, non rincorre il culto della morte, e il suo personaggio appare vacuo, senza alcuno spessore. La sua figura è solo una funzione narrativa, oggetto della visione e del tentativo di possesso della moglie, elemento unificante della banda e propaggine di Johnny, disposto com’è a seguirlo in qualunque impresa senza porre nessuna domanda (e la scena in cui Johnny cerca di convincere Benny a succedergli al comando è realizzata, nel connubio tra luce e ombra e nella complice prossemica, con le modalità di una scena d’amore). Grazie alla funzionalità di Benny e quasi suo malgrado, The Bikeriders veste anche i panni del racconto di formazione e crescita [ancora spoiler!]: l’inatteso sorriso finale con cui si chiude il film è il momento in cui l’icona si dota finalmente di un abbozzo di carattere per diventare persona. Dopo aver annullato se stesso nel club, forse un’altra vita è possibile.
America, anni 60. Il club dei Vandals, una compagnia di motociclisti, si trasforma in una gang losca e pericolosa...