Da tempo abbiamo imparato a riconoscere e ad amare il cinema di Lav Diaz. Il suo stile fatto di lunghissimi piani fissi, di dialoghi insistiti, di immagini in bianco e nero splendidamente concepite nei rapporti fra luce e oscurità, di una durata oltre gli usuali parametri del cinema, è l'espressione di una forma artistica coerente e militante, espressione di una resistenza arcaica al potere che appartiene alla storia del popolo filippino. I tempi dilatati del suo cinema sono quelli del mito e della tradizione orale, mentre la repressione degli umili e indifesi è sempre rappresentata come un’azione astratta e universale, proveniente dal passato delle Filippine ma propria di una pratica d’oppressione sempre uguale e sempre rinnovata.
Anche in The Halt - visibile sulla piattaforma Mubi - , prima incursione del regista nella distopia fantascientifica, con il Sud-est asiatico piombato nell'anno 2034 in una notte perenne a causa di potentissime eruzioni vulcaniche, minacciato da un’influenza sconosciuta e sotto il giogo di una dittatura decadente, la riflessione di Lav Diaz verte su quello che un personaggio del film chiama «il cataclisma dell’anima filippina», la perdita di memoria collettiva di chi vive in una notte perenne.
Ogni riferimento alla storia presente delle Filippine è ovviamente evocato. Il dittatore del film, Nirvana Reyes Navarra, è spietato, ridicolo, e ricorda sia Ferdinand Marcos, l’uomo che nel 1972 impose la legge marziale, sia il presidente Rodrigo Duterte, populista che vince in nome di una continua emergenza nazionale. Le forze d’opposizione sono come sempre singoli individui che trovano la forza di reagire: sacerdoti, intellettuali, eroi maledetti in cerca di riscatto. Significativamente, però, in questo futuro prossimo alcuni di loro sono colpiti da amnesia, altri devono reimparare a guardare la realtà («Non fidarti di ciò che sai», dice una sorta di psicologa-santona), mentre il potere militare – che controlla la popolazione con i droni, che reprime ogni forma di dissenso e manipola i media – è preda di una debolezza intrinseca, laddove il bisogno di controllo cela la paura di un crollo imminente.
Lav Diaz percepisce la necessità di un cambiamento anche di prospettiva nel suo stesso cinema, ma per il momento indugia ancora in forme già note. Gli elementi tipici della fantascienza distopica (oscurità, malattia, pandemia) in The Halt sono ancora trasformati in simboli dell’eterna lotta fra oppressione e liberazione. L’essenzialità poetica della visione del regista, anche qui accompagnata da un uso iperrealistico della luce, a confronto con la complessità della società contemporanea rischia però la semplificazione.
Tra potere e popolo non c’è confronto, non emergono contraddizioni, non c’è la tensione dei rapporti di forza che fanno la Storia. E se nel passato è lecito pensare che le debolezze dei singoli individui sfumino nel racconto mitico; nel futuro, invece, la proiezione di un modello immutabile, più che a una premonizione, fa pensare a una semplice e timida speranza.
Manila, 2034. Una serie di eruzioni vulcaniche ha oscurato il sole e un dittatore folle governa il Paese mentre l’esercito semina il terrore. In questo oscuro contesto, si intrecciano le storie di due ufficiali delle forze speciali e un’ex insegnante di storia, ora costretta a prostituirsi.