Dopo l’Oscar (alla sceneggiatura) per The Father – Nulla è come sembra, suo film d’esordio, Florian Zeller torna con un film molto simile. Tutto di attori e di scrittura. Questo The Son però appare sin da subito meno ispirato e intenso del precedente. Paragonare i film di un autore è spesso un giochino fine a se stesso e non troppo utile (né al lettore, né al critico e nemmeno ai film), tuttavia in questo caso l’invito a operare il confronto arriva direttamente dal regista il quale nel segnalare una sorta di ereditarietà o discendenza (di padre in figlio) attraverso i titoli sembra quasi voler tracciare un percorso.
La storia raccontata in The Son naturalmente non ha nulla a che fare con quella di The Father, alcuni elementi però ricorrono esplicitamente manifestando una sorta di costante autoriale (o stilistica) che tiene insieme tutto: come la malattia, la separazione, la colpa o la difficoltà delle relazioni, il tutto calato all’interno di nuclei familiari disgregati o in frantumi. Il figlio del titolo è Nicholas, diciassettenne che vive a New York con la madre Kate (Laura Dern) verso la quale manifesta una spiccata insofferenza, accompagnata da un generale disinteresse verso le cose della vita: la scuola, gli amici, le ragazze. Kate si rivolge allora al padre del ragazzo, Peter (Hugh Jackman) dal quale è separata – e che vive con la nuova compagna Beth (Vanessa Kirby) dalla quale ha appena avuto un altro figlio – perché aiuti Nicholas a superare i propri demoni. Il ragazzo decide di trasferirsi a casa del padre e le cose in un primo momento sembrano migliorare, ma il male che lo affligge torna a manifestarsi e lentamente a sopraffare sia lui che i genitori.
Zeller, come si diceva, sceglie un registro molto simile a quello di The Father: gira in interni, si concentra sui volti e i corpi dei propri attori e più che sulle azioni stringe il fuoco su gesti e dialoghi. L’intento è quello di scendere sottopelle ai personaggi, rivelandone l’intimità e i sentimenti più personali e reconditi, provando a mettere a nudo le contraddizioni e la complessità di scelte, giudizi e comportamenti che rispecchiano quelli di chiunque di noi di fronte a una cosa enorme e difficile da comprendere come la malattia mentale.
Il risultato è però un film schematico, che assume ben presto le sembianze di un congegno a orologeria costruito per arrivare dritto al più prevedibile dei finali – senza risparmiarsi tra l’altro alcune ingenuità narrative piuttosto grossolane. Pur cercando di lavorare sulle sfumature Zeller finisce per cadere nelle trappole della prevedibilità, lasciando solo intuire le possibilità di una sceneggiatura – scritta come sempre con Christopher Hampton – tanto articolata. Ne è un esempio la lunga sequenza dell’ospedale dove padre, madre e figlio – per la prima volta in scena tutti e tre insieme – discutono con lo psichiatra della possibile contenzione di Nicholas a tempo indeterminato: un momento in cui la regia asseconda perfettamente la scrittura regalando un’intensità straordinaria. Ma purtroppo è solo un attimo, un lampo che svanisce in fretta e che mostra quello che The Son sarebbe potuto essere e invece non è stato.
Due anni dopo il divorzio dei genitori, il diciassettenne Nicholas non può più vivere con sua madre. Il male di vivere che sente è diventato una presenza costante e il suo unico rifugio sono i ricordi dei momenti felici di quando era bambino. Il ragazzo decide di trasferirsi dal padre Peter, che ha appena avuto un figlio dalla sua nuova compagna. Peter prova a occuparsi di Nicholas pensando a come avrebbe voluto che suo padre si prendesse cura di lui ma nel frattempo cerca di destreggiarsi tra la sua nuova famiglia e la prospettiva di un’allettante carriera politica a Washington.