A dispetto della medietà stilistica tipica della produzione indie americana, o ancora dell’operazione nostalgica figlia del tragico destino di Foster Wallace, The End of the Tour è un film sull’anima travagliata e divisa di due scrittori americani. Non solo di Foster Wallace e il suo interlocutore David Lipsky, che nel 1996 intervistò per «Rolling Stone» l’allora giovane autore di Infinite Jest e solo nel 2010, a due anni dal suicidio dell’amico, trovò il coraggio di pubblicare il resoconto delle loro conversazioni (in Italia, Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta, ed. Minimum Fax), ma forse di ogni scrittore o artista che abbia mai provato a creare qualcosa, a dare forma e vita alle propri ambizioni e a convivere con i propri fallimenti.
Un film sulla guerra sempre persa e sempre devastante fra l’io letterario e la personalità del lavoratore inchiodato all’esigenze del quotidiano. Con i dovuti distinguo, con un tono e uno stile meno grotteschi, ma al contrario dolci e rassegnati, The End of the Tour è una versione cinematografica del romanzo L’informazione di Martin Amis, capolavoro pure lui del ’96 in cui lo scrittore inglese immagina la sfida fra due scrittori amici e rivali, uno geniale e fallito, l’altro stupido e di successo, assumendo il punto di vista desolato del primo.
Quello fra Lipsky e Foster Wallace non è il sogno autolesionista di un moralista ironico e paranoico. È un incontro vero, un legame d’amicizia e rivalità che si instaurò durante la visita di Lipsky alla casa dell’Illinois dove Foster Wallace viveva e durante le tappe del tour promozionale per Infinite Jest. Eppure, il senso di ammirazione, impotenza e disappunto che nasce in Lipsky è evidente, ha qualcosa di rabbioso e insieme umanissimo. Il regista James Ponsoldt e lo sceneggiatore Donald Margulies, al servizio del libro ma liberi di forzarne i passaggi, insistono da subito sul sentimento di inadeguatezza di Lipsky, scrittore newyorchese trentenne e ben inserito, verso il collega più grande e più ammirato: un uomo grande e grosso che ha scritto un romanzo smisurato, che ha una mente senza limiti e senza barriere, ma vive imprigionato nella propria auto-consapevolezza e perduto nel corpo anonimo del Midwest.
Lo slittamento fra le personalità dei due scrittori è inevitabile, così come il confronto e lo scontro. Senza arrivare alle vette disperate di Amis – che ovviamente nei due scrittori rivali tratteggiava se stesso, le proprie aspirazioni e le proprio ambizioni meschine – The End of the Tour mette i due David su piani uguali, li lascia entrambi soli, entrambi tristi e delusi a giocare la partita complessa della loro personalità. Con bene in mente proprio l’accumulo di informazioni, descrizioni, invenzioni, citazioni, o semplicemente di dati, numeri e parole dell’intera opera di Wallace, e in particolare di Infinite Jest (di cui in questi giorni ricorrono i vent’anni dall’uscita), il film afferma in modo sottile eppure definitivo quanto sia difficile, a volte impossibile, accettare l’incongruente caos che ciascuno di noi si porta dentro.
Nella figura gigantesca e cadente di Foster Wallace, genio malato di depressione, ex alcolista tentato da ogni possibile forma di seduzione di massa, dalla tv spazzatura al junk food, la contraddizione della vita americana, lo scontro l’essenza e l’immagine di un’intera cultura, trova un ennesimo corto circuito di senso, una figura sospesa fra seduzione e fallimento. Attraverso gli occhi dell’uomo qualunque David Lipsky, il genio letterario – anche e soprattutto alla luce della morte di Foster Wallace – diventa un gigante d’argilla, una creatura tristissima che nessuno, in propria coscienza, vorrebbe essere.
The End of the Tour è il racconto di una delusione, di un fallimento. E anche di un placida, inevitabile accettazione dell’anima americana. Il Foster Wallace del film è un uomo malinconico e riappacificato con la propria natura; un americano sommerso, soddisfatto del proprio nascondiglio nel mondo eppure incapace di pensare in forme che non siano disperate e apocalittiche. Un genio che rifiuta la propria genialità, insomma. O, meglio, che la accetta come mondo silenzioso tenuto a bada da una bandana, dentro un corpo sovra-dimensionato e anti-letterario, in cambio di una accettazione acritica della socialità più ovvia. «The perfect storm of shit», la chiama nel film: la perfetta tempesta di merda, che può indicare una maratona di tv anni ’80 o in generale una vita intera spesa fra spazi alienanti e solitari, una casa unifamiliare macchiata di neve, un parcheggio, una stanza d’albergo, una metropoli dove il massimo dell’attrazione sono la statua di una presentatrice televisiva o un centro commerciale…
La forza di The End of the Tour sta nel modo in cui racconta la fatica del processo creativo: liberazione da una prigione interiore che porta ad altre e più complesse forme di costrizione. Una prigione americana, come dice ancora Wallace, una forma articolata e mortale di abuso, di dipendenza: «It wasn’t a chemical imbalance» dice a un certo punto del film, parlando della depressione e del pettegolezzo che lo vorrebbe guarito dalla dipendenze da eroina, «It wasn’t drugs and alcohol. I think... It was much more that I had lived an incredibly American life. This idea that if I could just achieve X and Y and Z, that everything would be okay». Non si trattava di droga o alcol. Ma del fatto che avevo vissuto un'incredibile vita americana.
Leggere oggi Infinite Jest significa accorgersi di come ogni pagina, ogni paragrafo, frase o nota di quel romanzo sterminato e spaventoso fosse il prodotto fuori controllo (o incredibilmente, spasmodicamente controllato) di una mente che faceva di tutto per fuggire da se stessa. Forse per questo, in una delle ultime scene del film Foster Wallace dice a Lipsky: «There’s a thing in the book about how when somebody leaps from a burning skyscraper, it’s not that they’re not afraid of falling anymore. It’s that the alternative is so awful».
Quell’alternativa, quel bruciare vivi che in qualche modo anticipava l’11 settembre 2001, è ciò che il più geniale (non necessariamente il più grande) scrittore americano della propria generazione ha scelto di non seguire più, la mattina del 12 settembre 2008. Ed è invece quel regno della normalità, dell'incertezza e del dubbio, che ogni David Lipsky del mondo, o ogni scrittore mediamente bravo, mediamente fallito o soddisfatto di sé, sceglie di vivere e sopportare ogni giorno, accettando la prigione dei propri pensieri e la loro modesta resa su una pagina bianca.
Cosa si prova a passare cinque giorni con chi è universalmente riconosciuto come un genio? Ammirazione o invidia?
Il giornalista David Lipsky ha accompagnato David Foster Wallace, la “rock star della scrittura”, nel tour promozionale di Infinite Jest, il libro che lo ha consacrato una delle menti più straordinarie della storia contemporanea.