Da anni e anni capita di incrociare quei quadri di bambine e bambini dagli occhi troppo grandi, vuoti e oscuri, senza fondo e senza sguardo, buchi neri come volessero risucchiarci dentro. Ci seguono e un po' ci perseguitano. Vogliono catturare i nostri sguardi, rubarceli, loro che non ne hanno.
Adesso Tim Burton ci racconta la storia dell'artista (artista?) e pittrice (pittrice?) che li dipingeva (e continua a dipingerli...) e del suo secondo marito che ha fatto credere a tutti di essere lui l'autore, il pittore, l'inventore di quegli occhi.
La vera pittrice, nata nel 1927, vero nome Peggy Doris Hawkins, diventata Margaret Ulbrich con il primo matrimonio, poi Margaret Keane con il secondo, è stata sempre zitta, anni e anni, a dipingere nell'ombra, una shadow painter ubbidiente e nascosta: «People don't take women's art seriously» (siamo negli anni Sessanta). Lei dipingeva, lui si spacciava per l'autore e controllava la commercializzazione; lui, Walter Keane, si attribuiva la paternità dei quadri. «I'm Keane, you're Keane, from now on we're one and the same».
Lui vendeva e svendeva gli occhioni dei ragazzi tristi e delle bambine slavate, infiniti replicanti di se stessi; lui riusciva a far dire nientemeno a Andy Warhol che se quei quadri (!) - così kitsch, così pacchiani, così fasulli, così ripetitivi, grondanti un sentimentalismo da due soldi – se quei quadri (?) avevano tutto quel successo e piacevano così tanto a tanti allora voleva dire che non erano poi così brutti... Piacevano anche, per fare un nome, a Joan Crawford che ne mise due in Che fine ha fatto Baby Jane? e sulla copertina della sua autobiografia usò il ritratto che Margaret/Walter le fece(ro).
Tempi di cambiamenti per Tim Burton: si separa da Helena Bonham Carter e in questo Big Eyes sembra voglia in qualche modo separarsi da quel che era. Separarsi con una certa cautela, provare a vedere se può prendere cinematograficamente altre strade. I suoi ultimi film non erano convincenti, era in surplace, lì a cercare di rivitalizzare il suo mondo, ormai troppo strizzato, con un barbiere sanguinario, un'Alice poco azzeccata, qualche vampiro. Il suo mondo gotico andava spegnendosi.
Non è che questo Big Eyes valga come una resurrezione, ma la voglia di usare altre tonalità, altri colori, un'altra tavolozza c'è. Non tanto perché il film riguarda l'essere artisti, o perché guarda a quest'arte come a una frode bella e buona, o perché mette in scena un personaggio molto warholiano che vuole a tutti i costi avere non solo un quarto d'ora di celebrità ma anni di fama a scapito della moglie. Non è questione di temi. Piuttosto, Burton, che si affida all'istrionismo caricato di Christopher Waltz gigione e falso che più non si può, lavora qui con più luce, più vivacità, con toni pop, come non volesse più abitare nei suoi usuali mondi oscuri. Come li dichiarasse estinti. Come volesse anche lui come Margaret smetterla di nascondersi nel buio.
Forse, Burton non crede più alle favole. Non che si senta già al sicuro in questa nuova vita: il film è sbilanciato, non appoggia su fondamenta solide, ha anch'esso gli occhi vuoti, è una dichiarazione di cambiamento di direzione senza sapere bene quale sia. In quegli occhi spenti Burton ci mette un po' se stesso: si vede riflesso in quel buio. Fa dire a Terence Stamp, nella parte di un critico che trova insopportabili i volti dei bambini, che l'arte, anche il cinema, sta da altre parti, che quella roba è solo "an infinity of kitsch”.
Burton, forse, vuole reimparare l'arte e metterla da altre parti. Bisogna verificare in altri, prossimi film. Tim Burton, per adesso, si è – finalmente – perduto. In questo film sembra smarrito come Margaret, Amy Adams. Sembra usare occhi che non vedono. Gli tornerà la vista? Un'altra vista?
Big Eyes, è l’incredibile storia vera di una delle più leggendarie frodi artistiche della storia. A cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta, il pittore Walter Keane raggiunse un enorme e inaspettato successo, rivoluzionando la commercializzazione dell’arte con i suoi enigmatici ritratti di bambini dai grandi occhi. Finché non emerse una verità tanto assurda quanto sconvolgente: i quadri, in realtà, non erano opera di Walter ma di sua moglie, Margaret. A quanto pare, la fortuna dei Keane era costruita su un’enorme bugia, a cui tutto il mondo aveva creduto: una storia così incredibile da sembrare inventata.