Di fronte a Un mostro dalle mille teste in molti hanno chiamato in causa come parametro di valutazione l'opera prima di Plà, La Zona, escludendo dalla lettura di questo suo nuovo lavoro almeno due titoli intermedi, e magari sottovalutando il fatto che già La demora, che nel 2012 fu presentato alla Berlinale e divenne un caso da festival in ambito latinoamericano, finendo nella shortlist messicana per gli Oscar, esplorasse tematiche tangenti o complementari a quelle di questo nuovo film, che sono, in fondo, tangenti e complementari anche quelle del suo primo, fortunato, lungometraggio: malattia, segregazione, privilegi elitari e pregiudizi razziali.
Ovviamente non si tratta solo di rilevare una contiguità contenutistica e quindi in qualche misura suggerire la traccia di un percorso autoriale. Se La demora era una partitura a due voci che seguiva il rapporto tra un padre e una figlia corroso dalla malattia, Un mostro dalle mille teste, che è tratto da un romanzo della compagna di Plà, Laura Santullo, si concentra su un personaggio e la sua ossessione: a Sonia Bonet (Jana Raluy, volto notissimo della TV messicana) interessa che l'assicurazione cui ha versato soldi per una vita riconosca al marito, malato terminale di cancro, un trattamento sperimentale i cui benefici le sono stati presentati oltre confine, a Huston; ma la macchina burocratica messicana non consente l'uso di quei farmaci, non senza le deroghe dei referenti medici, e questi non sembrano esattamente disposti a prestare ascolto: di fronte a questa rete respingente, per farsi ascoltare, Sonia sceglie rimedi estremi, trascinando con sé, involontariamente, il figlio adolescente.
Quello che era cominciato con tutti i parametri del dramma di denuncia sociale diventa d'un tratto un thriller psicologico, non privo di momenti di humour nero, talvolta nerissimo. Plà semina in anticipo, mantenendo la giusta distanza, focale e psicologica, i tratti dell'esasperazione indotta nella protagonista: Jana Raluy offre all'obiettivo un volto segnato, ma la voce è sempre un passo di qua del rigo, non si fa tentare dalla scelta facile della reazione isterica. Soprattutto, con la scelta di focali lunghe, del fuori fuoco e di un découpage selettivo Plà crea un senso di temporalità differenziata: il tempo adrenalinico, vissuto in corsa, da Sonia, che cozza, spesso nella medesima inquadratura, contro il tempo del lavoro o dello svago dei burocrati, degli impiegati e dei medici che la donna si trova a dover affrontare: un senso della durata molto diverso.
In Un mostro dalle mille teste la richiesta di un giusto trattamento sanitario scoperchia una realtà più estesa e pervasiva di cattive condotte, di malasanità, diremmo in Italia («se opera a muertos para ganar un dinero extra», ricorda qualcosa?): forse a Sonia non riuscirà nemmeno di portarne le prove all'attenzione pubblica. A noi spettatori non resta che essere testimoni, miopi e parziali, convocati a processo, a porte aperte, nell'ultima inquadratura, insieme a quelli che, in voce-off hanno accompagnato (interrogandosi sulla propria negligenza) il giorno di (stra)ordinaria follia di una donna che ha tentato il tutto per tutto.
Nel tentativo disperato di salvare la vita del marito assicurandogli la cura di cui ha bisogno per sopravvivere, Sonia avvia una battaglia contro la sua assicurazione, una società corrotta e noncurante, e i suoi complici rappresentanti. Lei e il figlio finiranno in una vertiginosa spirale di violenza. Un animale ferito non piange, morde.