L’uomo che volle farsi re. Siamo ovviamente lontani anni luce dalle avventurose peripezie indiane raccontate da Kipling, ma King Richard, il biopic sul padre delle campionesse di tennis Venus e Serena Williams, prime giocatrici afroamericane a entrare nel ranking mondiale tennistico fino a diventarne leader, è proprio la storia - letteralmente - di un uomo meticolosamente e testardamente votato al proprio sogno: quello di diventare re del mondo attraverso il successo delle figlie. Nulla di avventuroso, nulla di imprevisto, perché il re Richard aveva calcolato tutto, pianificandolo rigidamente fin dall’infanzia delle ragazze. Tutto, l’istruzione, la cura, l’affetto ma anche i successi e la battaglia di affermazione da nere di umili origini in un mondo esclusivamente bianco come quello del tennis, sono una creazione di quell’uomo determinato e incontenibile, tanto sicuro di essere sempre nel giusto da piegare ogni resistenza possibile e anche impossibile. Al suo fianco una moglie forte ma anche accondiscendente, attenta a mantenere unita la famiglia, a chiudere un occhio sulle intemperanze dell’uomo e a non penalizzare le altre figlie.
Tutto, nel film, è costruito secondo il più prevedibile dei pattern formali e narrativi di un genere sfuggente come il racconto biografico, un genere bistrattato, spesso mal visto dagli autori, eppure ricco di potenziali variabili e, soprattutto, sicuro investimento per le produzioni, come dimostra la presenza sempre maggiore nel mercato cinematografico non solo americano. Ma qui siamo nel regno del noto e non dell'avventuroso, e poco importa pure l’effettiva aderenza ai fatti (per altro ratificati nella loro veridicità dalla presenza delle sorelle Williams come produttrici esecutive e dalle ormai immancabili post-credit scenes provenienti direttamente dagli archivi di famiglia), quello che importa è l’intento affabulatorio dell’operazione e la retorica che la regge. Il film di Reinaldo Marcus Green è infatti un’operazione attentamente studiata per essere ricompensata con i Golden Globes che ha già ricevuto e con i probabili Oscar che riceverà senza mai celare gli intenti della costruzione, anzi quasi ostentando la sua natura enfatica e celebrativa atta a raccontare la parabola esemplare delle ragazzine di Compton, California - sobborgo nero ad alta tensione sociale nella contea di Los Angeles - che hanno conquistato il mondo.
Come nella vita delle sorelle Williams pare non esserci stato molto spazio per l’imprevisto, così nessuno spazio è accordato nel film a una qualche intuizione fuori norma, a un qualche scarto capace di renderlo più sfaccettato e meno agiografia. A cominciare dall’interpretazione dell’istrionico Will Smith che, forte dell’ingombro di Richard, prende le sue ombre e le mette in campo al solo scopo di dare alla performance la forma del pezzo di bravura. Nessuna problematizzazione, nessuna tensione, solo prevedibilità, che è quanto di meno affine alla natura del tennis ci sia. E infatti qui lo sport non c’entra nulla, quasi non lo si vede, non è oggetto e neppure materia del film e non c’entrano nemmeno il dolore, il sacrificio e il travaglio umano che sono invece il cardine di un altro recente film tennistico, Il quinto set di Quentin Reynaud, che ruota intorno a un difficile rapporto tra atleta e madre allenatrice e che tenta di esplorare anche formalmente il racconto sul campo; che voglia dire qualcosa che siamo in Francia e non a Hollywood? Chissà. Resta il fatto che in King Richard non si prova mai a sollevare una questione, a porre un interrogativo, a mettere in dubbo in qualche la monodimensionalità della retorica, non affiora mai nemmeno la volontà di scavare davvero in quelle figure cosi ingombranti che sono i genitori dei campioni, a cominciare dal tirannico Mike Agassi raccontato con tanta sofferenza dal figlio André nella sua biografia.
Basato su una storia vera che ispirerà il mondo, ripercorre la vita di Richard Williams, un padre imperterrito che ha contribuito a formare due delle atlete più dotate di tutti i tempi, che hanno cambiato lo sport del tennis per sempre.