La giovane madre single Amina (Achouackh Abakar) vive con la figlia adolescente Maria (Rihane Khalil Alio) nei sobborghi di N’Djamena, la capitale del Ciad. Nonostante le difficoltà, Amina è riuscita sino ad ora a garantire a Maria una vita dignitosa grazie alla sua attività artigianale, rivendendo i cestini che ricava quotidianamente dai fili metallici degli pneumatici. L’equilibrio di vita che Amina è riuscita a trovare per se stessa e per Maria viene minato, però, quando la ragazza rimane incinta, una gravidanza indesiderata alla quale seguiranno l’allontanamento dalla scuola e il biasimo di una società patriarcale ancora fortemente retrograda.
Una madre, una figlia è il nuovo film di Mahamat-Saleh Haroun, presentato in concorso durante l’ultima edizione del Festival di Cannes, un racconto familiare intimo ma che riesce a mostrarsi anche intensamente concreto nelle sue denunce, affrontando le problematiche del reale con schiettezza e a viso aperto.
Presto, Maria deciderà di abortire. In Ciad, l’aborto è una pratica considerata come un tabù morale e religioso, oltre ad essere severamente condannata dalla legge. La sfida emancipatoria di Amina e Maria assume quindi i tratti di una lotta silenziosa impossibile da affrontare pubblicamente, guidata solamente dalla speranza di trovare qualcuno disposto ad assecondare la loro richiesta, facendosi carico di tutti gli enormi rischi che ne conseguono. Da questo punto di vista, l’attenzione registica si concentra in particolar modo sul cercare di far emergere il forte clima di oppressione e di oscurantismo che, purtroppo, è parte integrante di tutte quelle società che accettano una visione religiosa fondamentalista.
A differenza di quanto accade in tanti altri film sull’aborto, da 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni di Cristian Mungiu al più recente La scelta di Anne di Audrey Diwan, il regista ciadiano decide di non soffermarsi nello specifico sulla messa in scena dell’atto in sé e di lasciarlo invece nel fuori campo, preferendo concentrarsi maggiormente sull’analisi di un Paese in cui le libertà individuali, specialmente quelle femminili, si trovano ad essere gravemente limitate. Ogni azione di Amina, ad esempio, è costantemente assoggettata ad uno sguardo – rigorosamente maschile – che non si fa problemi ad emettere giudizi e a sputare sentenze: le assenze sempre più frequenti di Amina dalla moschea destano sospetto, il rifiuto di sposarsi è ulteriore fonte di biasimo, mentre il vicino di casa non si pone alcun freno nel manifestare apprezzamenti invasivi nei confronti della donna.
È nell’abbraccio tra Amina e la sorella Fanta, però, che risiede tutto il senso complessivo del film di Mahamat-Saleh Haroun. Fanta, per volere del marito, dovrà sottoporre sua figlia all’infibulazione. Nonostante le situazioni differenti che coinvolgono le due donne, i problemi e i drammi alla base sono gli stessi, la sofferenza è comune. Così, nella comprensione del dolore proprio e di quello altrui, nella promozione della compassione e dell’empatia come virtù umane fondamentali, si materializza infine quel legame sacro («lingui», che è anche il titolo originale del film) che unisce e connette l’umanità.
Una madre, una figlia si fa portatore di una richiesta di vicinanza genuina e sincera, preferendo la semplicità e la chiarezza agli urti più fragorosi di un certo cinema europeo, senza per questo sminuire l’importanza del suo messaggio.
N’djamena, Ciad. Amina vive con la figlia quindicenne Maria. Il suo fragile mondo, fatto di piccoli lavori artigianali e frequen- tazioni della locale moschea, crolla quando Maria resta incin- ta e, rifiutandosi di rivelare il nome del padre, dichiara di non voler portare avanti la gravidanza. In un paese in cui l’aborto è condannato da legge e religione, Amina deve affrontare una battaglia impari. Il filo invisibile della solidarietà femmini- le, però, saprà venire in suo soccorso.