Nel 2019 un piccolo, compatto e struggente film d'esordio conobbe la rara fortuna di ottenere un Premio a Locarno, due candidature come opera prima ai David e ai Nastri d'Argento e una lusinghiera circolazione per Festival Internazionali e distribuzioni varie. Si intitola(va) Maternal, con regia della bolzanina Maura Delpero. Analoga profondità di temi e medesima pulizia di tocco si colgono ora in Vermiglio (è il nome del paese, in provincia di Trento, ma è anche il luogo dell'anima della regista a cui si aggiungono inevitabilmente le suggestioni del nome), ben scelto per partecipare in Concorso alla Mostra del Cinema. “Lessico familiare”, lo ha definito l'autrice, mescolando finzione ed evocazione autobiografica.
Un anno, l'ultimo fatidico della Seconda guerra mondiale, a scorrere le quattro stagioni di questo paese/comunità abbarbicato sui monti, in cui domina con pacata autorevolezza sussiegosa la figura del maestro elementare, padre di 10 figli (tra quelli che ce l'hanno fatta a crescere e quelli no) e che ospita in malga anche un disertore siciliano in attesa del mutare degli eventi. Tra rispetto e ritrosia dei tanti verso il forestiero, tra questi e la primogenita (Martina Scrinzi) nascerà una passione elementare e inarrestabile che avrà conseguenze radicali.
Se l'ambientazione agreste-montana suggerisce inevitabili paragoni con cineasti di spirituale e ispirata poetica (come si fa a non pensare a Olmi, a quell'uso pudico e morale del dialetto come lingua? E aggiungeremmo, forse rischiando lo slittamento incongruo, anche lo scarno e “religioso” nitore di un Bresson, dell'ultimo Malick o di un Michelangelo Frammartino), nondimeno l'elegia del luogo appartato e poco moderno non esclude la commistione filtrata con la civiltà e la cultura nazionale. Il padre, interpretato con corrucciata compostezza da Tommaso Ragno, si fa mandare dischi di musica classica (tra cui Le 4 stagioni di Vivaldi) e declama libri di poesia, quelli base del nostro comune apprendimento scolastico di allora, si cruccia di insegnare le basi del primo sapere ai piccoli paesani (figli compresi), provocando peraltro, con la sua severità di Maestro e genitore, traumi tra i figli e ingiustizie patenti, soprattutto quando deve scegliere la sola tra la sua prole su cui fare sacrifici per farla studiare in collegio. Alla moglie e madre, solitamente silenziosa (una Roberta Rovelli fortemente espressiva nel suo concentrarsi sui lavori domestici), toccherà invece la battuta più forte e significativa, reagendo finalmente ai rimbrotti subiti dal figlio maggiore (disistimato dal padre) reo di aver “rubato” dei fiori per portarli alla madre, dopo l'ultimo parto: «su 10 figli tu non mi hai portato fiori neppure una volta!». Un dolente e rabbioso rimprovero rivelatore più di tanti discorsi.
Musica popolare, cultura montanara, dialetto, tragedie rusticane, il monachesimo come scelta di ribellione e libertà, la maternità come conseguenza naturale, accettata e indiscutibile, con una cadenza che si tiene distante dai ritmi del cinema più commerciale: Vermiglio è, per usare le parole della lucidissima autrice, innanzitutto “un paesaggio dell'anima”, cui accostarsi con rispetto e ammirata stima.
Tra il 1944 e il 1945 in Trentino e Alto Adige, tre sorelle, Flavia, Lucia e Ada, non sono più ragazze, ma non sono ancora nemmeno donne. Gli equilibri familiari sono sconvolti dall'arrivo di un soldato rifugiato.