Nel 2004, quattordici anni fa, ai tempi della nefasta politica teocon, nel film The Day After Tomorrow l’esodo di massa dagli Stati Uniti travolti da una nuova glaciazione era gestito non dal presidente in carica, come sarebbe stato logico e com’era stato fino a qual momento in ogni film catastrofico di Hollywood (non ultimo Independence Day dello stesso Emmerich), ma dal vice presidente, che per l’occasione era interpretato da un attore molto simile a Dick Cheney, il vice di Bush Jr all’epoca. Perché? Perché Dick Cheney, quello vero, tre anni prima aveva gestito personalmente, da un bunker della Casa bianca, la crisi gravissima dell’11 settembre, con il presidente al sicuro nei cieli sull’Air Force One e gli uomini forti della sua amministrazione ad attuare quello che allora a molti sembrò un colpo di stato morbido e mascherato. L’ex amministratore delegato della Hollyburton, l’ex uomo forte delle amministrazioni Nixon, Ford e Bush Sr. era diventato di fatto il padre putativo della nazione, un non-eroe sottile e furbissimo (un "vice", per l'appunto), capace però di diventare un incubo a occhi aperti per i suoi avversari e di trasformarsi nel giro di pochissimo, anche agli occhi della finzione cinematografica, nella versione sbiadita eppure infallibile del potere americano.
Quello che sarebbe avvenuto dopo avrebbe ulteriormente confermato i sospetti degli osservatori, con Cheney sempre più ascoltato e decisivo nelle decisioni di invadere l’Iraq nel 2003, di dichiarare il falso al Consiglio delle Nazioni Unite (con l’estrema umiliazione della colomba Colin Powell, costretto a metterci la faccia dagli avversari interni), di affidare ai falchi Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz, Mary Matalin, David Addington e in parte Condoleezza Rice il controllo della guerra e dei suoi vantaggi economici. Un mostro, più che un uomo nell’ombra. Un Riccardo III che ha tenuto per sé il cavallo e ha finto di rinunciare al regno.
Il paragone shakespeariano è suggerito dallo stesso Vice, quando il regista e sceneggiatore Adam McKay nel momento chiave della parabola di Cheney – la chiamata di Bush Jr dopo una pausa dalla politica durante i due mandati di Clinton – fa recitare alla moglie Lynne (Amy Adams) un incredibile monologo che mescola la diabolica sete di potere di Lady Macbeth con la famelica ambizione di Riccardo III. Invece che gobbo e zoppo, il Cheney di Christian Bale, raccontato con un furbo ed efficace andirivieni temporale gestito da un narratore che rimane misterioso fino a pochi minuti dalla fine, è grasso, pingue e pelato come l’originale; in più, proprio per l’evidenza del trucco, ha l’immancabile e tragica ridicolaggine della parodia alla Saturday Night Live (di cui McKay è stato regista a inizio carriera), oltre che l’aria da villain tipica del politico repubblicano incubo del pensiero liberal e non da ultimo il gusto per il travestimento e lo sberleffo della squadra di autori e attori che fa capo alla Annapurna Productions, che qui produce e dona il suo marchio inconfondibile alla American Hustle.
In tempi di trumpismo riandare con la memoria alle vergogne dei teocon fa un certo effetto: è storia di ieri ma sembra preistoria, scalzata dall’’invasione del sovranismo populista di questi ultimi anni e prima ancora, per fortuna, dalla calma serafica di Obama. Eppure è l’origine del pantano odierno, anche grazie alla chiarezza con cui McKay spiega come la politica di Cheney sia stata sempre guidata dalla complessa teoria del unitary executive, la dottrina, cioè, che rivendica per il presidente il diritto di controllare l’intero braccio esecutivo, aprendo così a una sorta di dittatura anche qui morbida e camuffata.
Come in La grande scommessa, che cercava di spiegare con grafici e gusto del cazzeggio la crisi economica globale, McKay fa la chiosa al suo stesso film. Della commedia sceglie il lato più moraleggiante e mette insieme ironia, giornalismo, fact checking e mascherata per dimostrare come la Storia sia sì una tragedia, ma soprattutto come di norma le gesta di chi la compie facciano parte di una gigantesca farsa.
E se le imitazioni del SNL mettono in mostra il lato osceno del potere rivelando però anche un atteggiamento complice, da privilegiati della grande macchina dello spettacolo americano, il cinema – anche quando hollywoodiano e compiaciuto come questo – non si piega alla doppia lettura della parodia (che avvicina la maschera al modello reale) e mette distanza fra sé, il soggetto e lo spettatore. Il Cheney di Vice è ridicolo ma mai divertente; è un arrampicatore mediocre e calcolatore che riempie Washington di suoi uomini e suoi uffici per controllare il controllabile e che arriva al potere dopo un passato da ubriacone senza obiettivi diversi da quelli ovvi e basilari del benessere e del comando (per sé e per la sua cricca).
L’ironia di McKay, prima di essere un vezzo, diventa così uno strumento narrativo infallibile; un’annotazione incessante che illustra la confusione della Storia e svela senza mezzi termini la vergogna del male, che è peggio, forse, della stupidità di un miliardario col ciuffo.
Uno sguardo inedito e non convenzionale sull’ascesa al potere dell’ex vicepresidente Dick Cheney, da stagista del Congresso a uomo più potente del pianeta. A interpretare il ruolo del protagonista – il riservatissimo uomo che ha cambiato il mondo come pochi leader negli ultimi cinquant'anni - Christian Bale, alla guida di un cast stellare che include il candidato agli Oscarâ Steve Carell, nel ruolo dell'affabile ma severo Donald Rumsfeld, la candidata agli Oscarâ Amy Adams, nei panni dell’ambiziosa moglie di Cheney e il premio Oscarâ Sam Rockwell, nel ruolo di George W. Bush.