A sei anni di distanza dal precedente Capitalism: A Love Story, Michael Moore torna dietro la macchina da presa per realizzare un altro documentario ironico e dissacrante caratterizzato dal suo stile politicamente scorretto e dalla sua portante presenza scenica. Il cineasta si è costruito nel tempo una carriera coerente e a tratti omologata, riuscendo tuttavia a inventarsi una cifra autoriale solo parzialmente condivisibile ma sicuramente ben riconoscibile e identitaria.
Ciò che dunque sorprende sin dalle prime battute di Where To Invade Next è come il regista statunitense abbia cercato (seppur in maniera non radicale) di allontanarsi da quanto detto e fatto sinora per dedicarsi a un progetto più leggero, godibile, meno profondo e appassionato rispetto ai precedenti ma probabilmente anche intellettualmente più onesto.
Il film in questione non ha alcuna pretesa di sviscerare il mondo della sanità americana, o il capitalismo feroce delle multinazionali, né tanto meno condurre un’inchiesta sulla vendita delle armi o sul marcio presente nella classe dirigente. Where To Invade Next ha come unico scopo quello di esaltare alcune indiscutibili qualità dei paesi esteri clamorosamente non pervenute in quella che più volte (all’interno del film ma non solo) viene apostrofata come la più grande Nazione del mondo.
Avviando la narrazione a partire da queste buffe premesse, il film si muove costantemente su binari che non possono far altro che ricercare lo stereotipo e il pregiudizio nei confronti di realtà lontanissime e culturalmente opposte rispetto agli Stati Uniti. Il primo caso a essere preso come esempio è, neanche a farlo apposta, l’Italia. Moore descrive la Penisola come la casa della buona cucina e dell’allegria, adottando un punto di vista davvero infantile e canonico nei confronti della nostra società. Lo schema si ripete anche con francesi, islandesi, tunisini, tedeschi: tutti modelli interpretati volutamente in chiave paradossale e ironica, descritti come se fossero il miglior posto al mondo in cui vivere e per nulla analizzati sotto una lente neutrale o mirata a condurre un’analisi a tutto tondo.
Che il cinema di Michael Moore si basi sulla verità secondo il regista invece che su una verità unica e obiettiva non è di certo una novità, eppure quello che nelle pellicole precedenti poteva (a ragione) sembrare una grave mancanza dettata da una passione politica e ideologica troppo invadente e accecante, qui risulta funzionale o comunque meno fastidiosa. Tuttavia, l’altra faccia di una simile operazione, ovviamente, ricade sul valore e sull’utilità di un progetto cinematografico loffio, ripetitivo, poco brillante e minato ripetutamente da luoghi comuni che potrebbero infastidire ben più di uno spettatore.
Michael Moore, interpretando il ruolo dell’“invasore”, fa visita a una serie di nazioni per prenderne spunto e migliorare le prospettive degli Stati Uniti e delle sue prospettive militari. Il creatore di Fahrenheit 9/11 e Bowling for Columbine ritorna con questa esilarante e rivelatrice chiamata alle armi; e finisce per scoprire che le soluzioni ai problemi più radicati in America esistono già in altri paesi del mondo e, con molta probabilità, aspettano solo di essere adottate.