Stories We Tell, il terzo lavoro da regista di Sarah Polley, è un film difficile da classificare.
La struttura portante è infatti quella del documentario che alterna interviste ai protagonisti della storia a materiale d’archivio. Ma qui i protagonisti della storia sono i parenti della regista, il tono assume presto la forma di un giallo investigativo – quasi un whodunit esistenziale – e il materiale d’archivio è solo parzialmente tale, visto che molti dei filmini familiari sono rielaborazioni personali girate alla luce dell’evoluzione della storia.
Polley conduce una ricognizione sulle lacerazioni della sua famiglia mettendo in scena i conflitti che ne derivano con piglio sfrontato. Presenta i personaggi per poi sottoporli a un interrogatorio intimo. L’idea parte subito dopo la morte della madre, attrice canadese con debolezze sentimentali. Una famiglia precedente abbandonata per amore, con la dolorosa separazione dai figli maggiori, una nuova relazione, altri bambini e per ultima Sarah, nata durante un’apparente crisi con il marito. Il sospetto che il suo padre naturale non sia quello con cui è cresciuta spinge Polley a spremere dai suoi interlocutori – lo stesso padre, i fratelli, gli amici di una vita dei genitori – brandelli di verità, passati possibili e potenziali.
Il risultato di questa ricerca personale mette in crisi le certezze di una vita ma non scuote più di tanto la necessità di un’analisi che ricostruisca le coordinate affettive di un intero gruppo di persone. Con un atteggiamento tra il beffardo e il mistificatorio, Polley affronta il nuovo orizzonte affettivo con salda necessità, attaccando i parenti, aprendosi con disponibilità al padre ritrovato, incalzando per saperne di più, per ottenere di più. Con afflato terapeutico viviseziona i fatti e li rielabora, non vittima ma attiva esegeta della propria esistenza.
Il risultato è un ritratto anomalo di una famiglia forte in quanto disintegrata, che affronta il quadro in continuo movimento con coraggio, a volte con pudico dolore, a volte con acerba ostilità. Le tessere del mosaico, che alla fine sembrano coincidere (ma sarà proprio così?), compongono un insieme coeso ma non pacificato. Attraverso la febbrile ricostruzione di un’identità collettiva (di branco più che di famiglia in senso tradizionale) Polley trova un senso rinnovato, personale e pubblico, facendo coincidere la ricerca intima con la crescita umana di cineasta, trasmettendo un segno artistico nella (ri)conoscenza di sé.
Tutte le famiglie hanno un segreto. Alcuni sono innocenti miniere di lessici familiari. Altri sono duri come il pianto in gola. Altri terrificanti come scheletri. L'unico modo di liberarsene è raccontarli. Lo sa Sarah Polley, attirce e regista, che in questo film mette a nudo se stessa filmando la sua memoria senza filtri, con una libertà che dà al lavoro che nel risulta una potenza straordinaria.