Non proverò nemmeno a convincervi che Zona d’ombra sia un buon film, perché di fatto non lo è. Ma è un film astuto, astutamente al passo coi tempi, e come tale meritevole di visione.
Prende una storia con la quale a Hollywood riescono quasi sempre a fare pozzi di quattrini – l’individuo solitario e testardo, tutto d’un pezzo, contro l’istituzione potente e facoltosa, piena di uomini protervi o melliflui – e la aggiorna ai tempi e nei modi del politicamente corretto.
Ecco dunque che nella parte dell’eroe solitario abbiamo non solo un nero (ormai non più sufficiente a guadagnare al film l’aureola di cinema progressista), ma un nero africano, Bennet Omalu, emigrato negli Stati Uniti per studiare medicina e ancora relativamente a digiuno degli usi e costumi del paese che lo ospita. Tra i quali la mitologia del football americano, che, per citare una delle migliori battute del film, negli Stati Uniti “possiede un giorno della settimana, lo stesso che prima era di proprietà della chiesa”. Nel corso della sua attività da anatomopatologo il medico si imbatte nella morte prematura di alcuni giocatori di football, scoprendo che i ripetuti colpi alla testa subiti nel corso della carriera sono stati loro letali. Tanto basta per mettergli contro la NFL, la lega del football americano professionista, che si prodiga per screditarlo e neutralizzare i suoi studi.
La storia è autentica e può dirsi tutt’altro che conclusa: è di appena tre settimane fa un articolo nel quale il “New York Times” accusa le principali squadre della lega di avere occultato i dati sulle concussions, le commozioni cerebrali, riportate dai propri giocatori, vanificando così di proposito i dati di una commissione appositamente istituita nel 1994. Ma la sceneggiatura riesce comunque a fare di Omalu una figura eroica, celebrando la sua integrità e l’impatto della sua denuncia, che infine costringe la NFL a prendere sul serio la questione (quando invece la cronaca appunto ci dice che si sono limitati a imbrogliare le carte).
Passati da quasi un secolo i tempi in cui gli immigrati venivano demonizzati attraverso il cinema (per fare solo un esempio: il gangsterismo italo-americano), ora Hollywood tratta l’argomento in chiave di beatificazione. È proprio l’africanità di Omalu - ovvero il suo essere del tutto indipendente, per origine e formazione, al fascino del football – a permettergli di contrapporsi in modo sacrilego alla religione dello sport nazionale. Nello stesso tempo, l’idea dell’outsider (etnico, in questo caso) che si oppone al sistema senza arretrare di un passo, sordo ad ogni forma di intimidazione, è – come dichiara un personaggio – “so fucking american”. Lo è al punto da introdurre l’idea che certe storie virtuose possano avvenire solo lì: in altre parole, l’America può non essere più la terra natale degli eroi, ma sicuramente continua ad essere la terra d’elezione dell’eroismo individuale.
Vedere (il film) per credere…
Il neuropatologo Bennet Omalu cerca di portare all'attenzione pubblica la sua scoperta: una malattia degenerativa del cervello che colpisce i giocatori di football vittime di ripetuti colpi subiti alla testa. Il medico cerca di smantellare lo status quo dell'ambiente sportivo che, per interessi politici ed economici, metteva a repentaglio la salute degli atleti. Una storia vera, non ancora del tutto finita, in cui il mondo del football americano emerge come intrico complesso e corrotto.