È con movenze narrative da cinema classico che inizia vedete, sono uno di voi (tutto in minuscolo). Inizia dalla fine: l’immagine della camera in cui fu ricoverato Carlo Maria Martini (che ritornerà più volte a contrappuntare il film, in varianti luministiche e di inquadratura come una sorta di commento/monito in filigrana), quella delle sue spoglie esposte in Duomo e quella del suo sepolcro. Da qui, con un lungo ritorno al passato Ermanno Olmi riparte per raccontarci l’infanzia piemontese (Torino, la Valle d’Aosta, Orbassano) del futuro Arcivescovo di Milano, nel contesto di una famiglia agiata, guidata dalla religiosità della madre e dal senso del dovere del padre esplicato nella responsabilità con cui conduceva la sua attività di ingegnere costruttore. Gli anni ’30 e poi l’ingresso in guerra, lo sfollamento nella casa di campagna, Torino sotto le bombe, la scuola distrutta e le lezioni sospese (per la gioia dei giovani alunni).
Da subito prende corpo la forma che Olmi ha voluto dare al film, la struttura composita derivante da un montaggio, straordinariamente dinamico sia nel ritmo che nell’elaborazione intellettuale, di materiali visivi eterogenei: fotografie di famiglia, brevi sequenze documentarie della Torino e dell’Italia di quegli anni, inquadrature realizzate appositamente nelle stanze di casa Martini (direttore della fotografia Fabio Olmi, definitivamente uno dei migliori in circolazione nel nostro cinema – e non solo). Esemplare è il passaggio costruito sulla ripetizione delle poche e tristemente famose battute del discorso mussoliniano che annuncia la dichiarazione di guerra: una prima volta accompagnato da immagini enfatiche provenienti dai cinegiornali di propaganda, chiuse però con due inquadrature di un beffardo Totò “in armi”; ma, dopo averci mostrato gli effetti terribili dei bombardamenti sulla città, le stesse frasi vengono riprese, accompagnate questa volta dalle fotografie della ritirata di Russia e dei cadaveri dei soldati allineati nella neve.
Se la focalizzazione del racconto in voce off è interna e corrisponde naturalmente a quella di Carlo Maria Martini, la voce narrante è di Ermanno Olmi stesso: scelta efficacissima per sottolineare l’adesione dell’autore alla dimensione morale e umana del protagonista.
Il dopoguerra (che si apre con uno stacco di montaggio di grande impatto: dai corpi sollevati per i piedi in Piazzale Loreto all’inquadratura luminosa di una coppia appena sposata) corrisponde prima al periodo della formazione religiosa (la Compagnia di Gesù) di Martini e poi a quello del percorso, intrecciato alla complessità storica dei decenni che vanno dalla metà degli anni ’40 alla fine del XX secolo, che lo porterà a esercitare, dal dicembre 1979 al luglio 2002, l’incarico di arcivescovo di Milano. La narrazione si fa più mossa, articolata, più complessa la stratificazione dei materiali. Vi rientrano con pieno diritto – oltre a quelli provenienti da fonti eterogenee, documentarie, televisive e fotografiche – immagini appartenenti al cinema di Olmi: E venne un uomo, La circostanza, Cammina cammina, Milano 83, Genesi: la creazione e il diluvio, Terra madre, Rupi del vino, Il pianeta che ci ospita; ma anche le note dalla colonna musicale di quella tappa decisiva costituita da Centochiodi. Film che testimoniano di un cammino intellettuale, oltre che dell’evoluzione cinematografica del loro autore, inscindibile da una meditazione coerente e sempre vivace sulle vicende della Storia. E ci sembra importante, nei riferimenti cinematografici, segnalare che l’unico film non appartenente alla produzione olmiana, citato con poche ma significative inquadrature, sia Il gesto delle mani di Francesco Clerici.
In questa seconda parte – di fatto circa due terzi del film – il “documentario” si trasforma sempre più decisamente in un film-saggio che chiama in causa oltre a vicende storiche non solo italiane anche temi di portata etico/sociale universale: i legami tra politica affarismo e corruzione; l’affermarsi del profitto economico come disvalore fondante il sistema di potere che ci controlla e manipola; la violenza politica e la cultura della morte; la forza del dialogo e dell’intelligenza che lo sottende; che cosa intendiamo con i termini “progresso” e “lavoro”; di che cosa parliamo quando parliamo di Europa, di democrazia; la contrapposizione tra fede e ateismo. All’andamento lineare e cronologicamente progressivo, corrispondente agli anni precedenti la guerra, si sostituisce una struttura a mosaico, per immagini e voci organizzate secondo il principio non più strettamente cronologico ma tematico; la voce narrante rimane centrale nel procedere del discorso, ma si arricchisce di altre voci come quella di Pietro Calamandrei, Carlo Maria Martini stesso, di “voci” letterarie citate con puntualità e pertinenza (Nikolai Gogol’, Mario Soldati).
E in questa struttura testuale torna a prendere corpo ancora una volta l’idea manzoniana di Storia come Storia degli umili che da sempre accompagna il cinema di Ermanno Olmi, depurata però una volta di più da ogni ironia paternalistica che caratterizzava la scrittura dell'illustre romantico e votata alla ricerca di un protagonismo degli ultimi affidato alla forza della parola e dell’esempio morale offerto dalla loro capacità di resistere all’ingiustizia. Gli accorati accenti conclusivi di un’interrogazione critica rivolta alla Chiesa stessa in merito ai suoi errori si accompagnano, in questa prospettiva, con feroce tenerezza al commiato di Carlo Maria Martini che impartisce (ma ormai senza voce) la sua ultima benedizione alla città di Milano.
La storia di uno dei protagonisti del nostro tempo: Carlo Maria Martini, cardinale e arcivescovo cattolico italiano, per molti decenni fra le più importanti e progressiste figure della Chiesa cattolica, deceduto nel 2012. Accompagnati dalle sue parole, intessute da memorie visive, Olmi ripercorre fatti e pensieri della vita di Martini per conoscere le motivazioni e gli obiettivi della sua fede.