Recensire un nuovo prodotto seriale è sempre un lavoro complesso che richiede una precisa postura metodologica. In WandaVision questa difficoltà è aggravata da due ulteriori aspetti: il primo riguarda il contesto narrativo in cui si colloca l’opera, il secondo è legato alla struttura interna della serie e al suo linguaggio.
Per quanto riguarda il primo punto, il prodotto di Jac Schaeffer si colloca nel vasto puzzle del Marvel Cinematic Universe (MCU) iniziato al cinema con Iron Man (2008), felicemente proseguito con i vari Avengers e approdato pure in televisione grazie a Agents of S.H.I.E.L.D., Daredevil e altri. Da questo punto di vista, il lavoro tentacolare che Marvel sta portando avanti con grande successo di pubblico e di incasso è straordinario: interconnettere i prodotti gli uni agli altri sfruttando medium audiovisivi differenti è un’operazione tecnica e ideologica senza precedenti – tecnica perché i prodotti Marvel, pur essendo trasversali a cinema e televisione, riescono a mantenere un’identità chiara e riconoscibile; ideologica in quanto la più grande industria culturale al mondo sta colonizzando l’immaginario di milioni di persone (chi ha detto Wanda?) con eroi, costumi e storylines sempre nuovi e facilmente accessibili (facendo una rapida media, dal 2008 al 2020 sono usciti in tv, sul web o nelle sale circa 5 prodotti Marvel all’anno).
Sotto questo aspetto WandaVision non è altro che una delle numerose parti che costellano il multiverso marvelliano e, benché la scrittura di Schaeffer tenti di essere chiara anche per un neofita, i presupposti narrativi non esplicitati sono molti. Le vicende, infatti, sono ambientate dopo Avengers: Endgame e la serie racconta il tragico tentativo di Wanda di convivere e superare la morte di Visione, ucciso per ben due volte dalla follia palingenetica di Thanos. Ovviamente non c’è nessun incipit riassuntivo e se il prodotto, puntata dopo puntata, diverte e sollazza il fandom con una lista pressoché infinita di citazioni e riferimenti al MCU, lo spettatore meno esperto è costretto, non senza difficoltà, a ricostruire in autonomia i tasselli di una storia lunga e complessa.
WandaVision, quindi, non è un prodotto autonomo e distaccato dal MCU, anzi, la serie di Schaeffer è in continuo dialogo con i lavori precedenti e la struttura narrativa non solo si interconnette benissimo con le altre, ma apre ad una lunga serie di ulteriori capitoli. Sotto questo profilo è particolarmente interessante notare come Marvel stia tentando di allargare e coinvolgere il pubblico cambiando le regole del gioco: non è più il prodotto che rincorre e si adegua alla cultura o ai riferimenti dello spettatore, ma è lo spettatore che se vuole restare incluso in questa epopea ormai ventennale deve adeguarsi, in un modo o nell’altro, al prodotto.
Tuttavia WandaVision non è soltanto una serie citazionista che dipende da altri racconti, ma è anche un lavoro coraggioso con un proprio linguaggio e con una struttura interna solida. In particolare, l’intuizione più interessante ruota attorno al tentativo, da parte di Wanda, di elaborare il lutto di Visione tramite la creazione/manipolazione di un mondo nuovo, estraneo alla realtà e inserito in un rinnovato flusso spazio-temporale. Wanda, infatti, dilaniata dalla solitudine e dalla sofferenza, sfrutta i propri poteri per ricreare, nella sperduta cittadina di Westview, il proprio mondo ideale. In questo micro-universo la supereroina ha costruito una famiglia con Visione, è una casalinga un po’ ingenua e gli abitanti della città sono dei burattini senzienti manipolati dalla stessa Wanda.
Quello che più convince di quest’idea non è la volontà di rappresentare gli stereotipi classici della middle class americana degli anni passati, bensì l’architettura metatelevisiva su cui si regge tutta la prima parte della serie. Nei primi episodi di WandaVision, infatti, la quotidianità dei due protagonisti è inserita nella cornice narrativa tipica delle vecchie sit-com americane: Lucy ed io, Vita da Strega e La famiglia Brady sono soltanto alcuni dei riferimenti rappresentativi sui quali si articolano i primi episodi della serie. Con il progressivo dipanarsi delle vicende lo spettatore comprende che le sitcom sono messe in scena dalla stessa Wanda e che la scelta di ambientare la propria nuova vita all’interno di vecchie serie è dettata dal fatto che l’eroina è cresciuta guardando (e sognando) quelle stesse commedie televisive.
Il desiderio della Wanda-spettatrice, quindi, è di rifugiarsi in un immaginario passato, perfetto, privo di problemi e quando la protagonista si ritrova sola e in preda alla sofferenza decide di ricostruire e rivivere nella realtà quegli stessi sogni e fantasie. In altre parole, alla base di WandaVision c’è l’idea che pure la televisione sia un dispositivo dell’immaginario e Wanda non fa che realizzare il desiderio proibito di ogni spettatore: quello di abitare il proprio fantastico.
A complicare la situazione vi è la scelta narrativa di inserire l’elaborazione del lutto di Wanda all’interno di una dimensione metatelevisiva che gioca continuamente con la quarta parete e con l’illusione di realtà.
Quest’idea si sviluppa attorno a due livelli tra loro sovrapposti e simultanei. Il primo lo si rintraccia negli elementi extra-diegetici che costellano ogni episodio della serie e che hanno un effetto disarmante sullo spettatore. Tra questi vi rientrano le risate registrate, i titoli di testa tipici delle sitcom, gli ammiccamenti in camera dei protagonisti e la volontà di mostrare come la quotidianità di Wanda e Visione sia ambientata proprio in uno studio televisivo (con tanto di microfoni, mdp e luci in vista). Questa direttrice rappresenta il primo metalivello della narrazione e sarà di vitale importanza per comprendere come tutta la vita a Westview non sia altro che un grande Truman Show sorretto dalla volontà e dai poteri di Wanda.
Il secondo livello lo si nota sul finire di ogni episodio quando lo spettatore, poco prima dell’inizio degli autentici titoli di coda, osserva lo spegnimento di un vecchio televisore. La composizione a scatole cinesi che si crea è una sorta di “schermo nello schermo”: lo spettatore, dalla propria tv, assiste all’interruzione di un ulteriore televisore il quale, a sua volta, stava riproducendo la stessa sitcom vista nell’episodio appena concluso. Questa seconda stratificazione metalinguistica è sicuramente una delle intuizioni più interessanti della serie anche se, con il passare del tempo, si rivela soltanto un tranello perfettamente inserito nella cornice diegetica della narrazione. A guardare la tv, infatti, sono i personaggi dello Sword (la squadra speciale che deve fermare le folli manipolazioni della protagonista) che osservando i piccoli indizi disseminati nella sitcom riescono a localizzare e fermare Wanda.
Purtroppo questo binario metatestuale svanisce completamente negli episodi finali dove la sceneggiatura di Schaeffer, in modo brusco e fin troppo deciso, si concentra sul tradizionale prosieguo delle vicende. Da questo punto di vista la serie è nettamente divisa in due parti: la prima divertente, metaforica e metatelevisiva, la seconda, meno riuscita, legata allo scontro con il villain di turno e alla conseguente trasformazione di Wanda in Scarlet.
Nel complesso WandaVision è un prodotto che evidenzia un’interessante autoriflessività della scrittura e che, a differenza di altri lavori Marvel, non vuole catturare il pubblico soltanto a colpi di easter egg ma tenta di coinvolgerlo come elemento attivo della rappresentazione. Ovviamente siamo lontani dal metalinguaggio di Keaton, Fellini o Robbe-Grillet, ma il senso dell’operazione di Schaeffer non è quello di competere con il metacinema d’autore, bensì di introdurre nel MCU una dimensione narrativa fresca, originale e perfettamente consapevole delle potenzialità del dispositivo televisivo.
WandaVision, dei Marvel Studios, unisce lo stile delle classiche sitcom all’Universo Cinematografico Marvel in cui Wanda Maximoff e Visione, due esseri dotati di superpoteri che conducono una tranquilla vita di periferia, iniziano a sospettare che niente sia come sembra.