After Yang è molto lontano, anche esteticamente, da quello che fu l’esordio di Kogonada, Columbus, realizzato nel 2017 dopo una brillante carriera come video-saggista (per il British Film Institute e Criterion Collection, tra gli altri). Se Columbus era un’elegante ricerca della forma cinematografica raggiunta attraverso la dimensione spaziale e architettonica della città dell’Indiana del titolo, After Yang è invece l’ingresso di Kogonada in una prospettiva più narrativa e meno contemplativa. Ambientato in un futuro prossimo, talmente prossimo da presentare caratteri praticamente contemporanei, anche se rivisti e modulati iperbolicamente, il film è una riflessione lucida e dolente sul senso di perdita, così come lo era il racconto di Alexander Weinstein Saying Goodbye to Yang, sul quale però s’innesta il valore aggiunto della memoria e della rinascita, che in Weinstein era invece assente.
Yang è un androide dalle fattezze orientali, una versione antropomorfa ed elaborata di Alexa, acquistato da una famiglia con l’intenzione iniziale di farne un babysitter per la figlia adottiva di origine cinese, affinché svolga il ruolo di facilitatore culturale con la bambina. Solo che Yang è talmente umano da diventare quasi un membro della famiglia, al punto che quando si blocca durante una gara online di ballo con il resto dei familiari senza più riprendere le sue normali funzionalità, il trauma investe tutti come se fosse un lutto. Kogonada, tuttavia, va oltre il senso di perdita (la fine di Yang nel racconto di Weinstein era molto più drammatica e simile a un improvviso colpo apoplettico: il suo volto cadeva riverso nella ciotola in cui stava facendo colazione). All’interno dell’androide, il cui nome alla fabbricazione è techno-sapiens, c’è un software che ha registrato stralci di vita familiare, che si ripresentano come nostalgici flashback che ricordano molto da vicino l’estetica malickiana di The Tree of Life.
Il film sfiora per qualche minuto la tensione dell’insider che mina inquietantemente la privacy, abbastanza per far sorgere il sospetto che il focus si sposti sull’invadenza dei dispositivi ma è solo una falsa pista, oppure una consapevole sbandata, prima di intraprendere un ulteriore snodo, tutt’altro che nuovo (da Blade Runner a Westworld), sulla sensibilità umana delle macchine. Ma anche questa si dimostra una tappa in divenire all’interno di una riflessione pronta a estendersi al valore del ricordo, inteso come metonimia di emozioni inimmaginabili, e al senso ultimo delle cose. Centrale, a questo riguardo, appare un dialogo tra Kyra (Jodie Turner-Smith), la madre della famiglia, e lo stesso Yang (Justin H. Min), in cui quest’ultimo riporta la frase di Lao-Tzu secondo la quale «Quello che il bruco chiama “fine” il resto del mondo la chiama farfalla». Il qualcosa che colma il vuoto del nulla per Kogonada è una rivoluzione copernicana, lui che ha in Ozu il nume tutelare e la fonte primaria di ispirazione, tanto da assumere il nome d’arte dal suo sceneggiatore (Kogo Noda), lo stesso Ozu che come concetto riassuntivo della sua vita ha sulla tomba il solo ideogramma Mu, appunto il Vuoto, il Nulla assoluto.
Questo nulla che si trasforma nell’ipotesi di qualcosa è un’eredità che nell’assenza (di Yang) marca l’esistenza di tutta la famiglia e si condensa narrativamente nella ricerca dei volti individuati dal padre Jake (Colin Farrell) nei frammenti di memoria del techno-sapiens. Ciò che parte come il tentativo (impossibile) di riparazione dell’androide si trasforma in elaborazione per tutto il nucleo familiare, un processo che rende possibile abbandonare i toni rarefatti di cui sono vittime i personaggi del film e che li rendono tanto simili ad automi, prosciugandone azioni ed entusiasmi, appiattendoli nello scenario e relegandoli spesso sullo sfondo. Ampio, infatti, è il ricorso a piani dalle prospettive larghe, che osservano i protagonisti inserendoli in stipiti, anditi, vetrate, che procurano effetti di riquadratura delle immagini, come se le figure dovessero essere ricalibrate per essere comprese nella loro reale collocazione. Nell’estrema consapevolezza delle immagini che è propria di Kogonada, appare anche paradossale l’utilizzo del controcampo a centottanta gradi derivato dall’onnipresente Ozu, qui proposto in una versione futuristica che acuisce la distanza tra i personaggi illudendo sulla loro vicinanza quando sono in videochiamata, mentre li allontana inesorabilmente anche quando sono a stretto contatto alla stessa tavola.
Se la costruzione estetica appare impeccabile, qualche perplessità deriva dallo sviluppo della sceneggiatura. A volte questa appare troppo rapida nel far raggiungere ai personaggi una consapevolezza che contrasta nettamente con i ritmi laschi delle esistenze ritratte, mentre, almeno in un’altra occasione, è piuttosto approssimativa nel sollevare questioni (l’avversione di Colin Farrell per i cloni) senza poi elaborarle in adeguate riflessioni bioetiche o anche in semplici giustificazioni credibili che vadano oltre il puro rilievo fine a se stesso.
In un prossimo futuro, una famiglia fa i conti con questioni di amore, connessione e perdita dopo che la loro intelligenza artificiale aiutante si rompe inaspettatamente. Quando il miglior amico di sua figlia, l'androide Yang, si rompe, jake cerca di ripararlo. Così facendo, scopre parti della sua vita che gli sfuggono. Ciò si trasformerà per lui in un'opportunità per rafforzare il legame con la moglie e la figlia.