Un’Atene grigia e atemporale è vessata da una malattia che provoca un’immediata amnesia nelle persone che la contraggono. Tra di loro c’è Aris, un uomo di mezza età, uno dei tanti pazienti a non essere stato reclamato da nessuno, che dovrà quindi affrontare il percorso medico di reinserimento in società. Per riappropriarsi di una nuova identità e di un nuovo rapporto con il mondo, porterà a termine una serie di semplici azioni prescrittagli dal medico, per poi documentarle con una vecchia polaroid.
Apples, opera prima di Christos Nikou presentata in apertura della sezione Orizzonti di Venezia77, disponibile dal 31 Marzo su MioCinema, narra di un’epidemia della memoria e di un uomo che stenta a riconoscersi. Il personaggio di Aris Servelatis (Alps di Lanthimos) si approccia agli oggetti e alle azioni abitudinarie con il fare straniato di chi è nuovo alla vita oppure, vi è fin troppo abituato; tocca le cose con una platealità grottesca e sosta negli interni con un’immobilità assoluta, vicina all’imbalsamazione dei protagonisti di Roy Andersson. È una recitazione sottrattiva e minimalista che però ricorda l’enfasi gestuale di Jacques Tati e la teatralità della slapstick comedy. Il suo, è un goffo e drammatico tentativo di rieducarsi alle azioni più comuni, dall’allacciarsi le scarpe, fino a rimorchiare in discoteca. Vestirsi, ballare, comprare delle mele, posare in attesa di uno scatto, diventano trasposizione fisica di quell’assenza di storia e ricordo che è alla base del film, in bilico tra la goffaggine di un bambino che non sa andare in bicicletta e l’affaticamento di un anziano che sta per morire.
In questo modo, Apples svuota di senso le azioni più comuni, quelle di cui riempiamo distrattamente la nostra giornata e che abbiamo fatto diventare riflessi, impulsi, mentre ci dimenticavamo di vivere. In questo modo, Nikou viviseziona l’abitudine e riesce a mettere in scena il rapporto muto e affaticato tra un individuo e il tempo in cui vive. L’acquisizione di una nuova identità da parte del protagonista non è altro che un reenactment della vita, una messa in scena straniata dell’esistenza fatta da chi non se la ricorda. La voce registrata del dottore che lo guida nelle consegne più elementari è una sorta di soggetto detto ad alta voce, la didascalia silente e prevedibile che guida un’intera vita e condensa le età e le fasi in un elenco.
L’assenza di memoria è dunque una condizione che non si esaurisce internamente, ma contagia la fisicità, la prossemica e infine arriva all’ambientazione del film. Infatti, mentre la vicenda raccontata ci riconduce a un contesto prettamente distopico, la scenografia, non solo si ancora ad un passato stilistico e visivo (analogamente a Her di Spike Jonze), ma arriva ad eliminare il progresso tecnologico dal qui e ora dell’opera (tutti i dispositivi che circondano l’inesperto protagonista sono analogici). Oltre a suggerire una netta connessione tra assenza di memoria e digitalizzazione, questa scelta espressiva trasporta l’assenza di riferimenti temporali alla messa in scena nella sua interezza, ricordando il dialogo tra interiorità e ambiente di alcune delle opere di Charlie Kaufman.
È in questo modo che Apples riesce a essere un racconto distopico che non si arrende alla fantascienza, delineando un contesto futuristico senza allontanarsi dalla credibilità del presente, dalla carne del nostro tempo. Grazie anche a questa peculiarità, quest’opera si colloca a pieno titolo in quella che viene definita la New Greek Weird Wave, inaugurata dallo sconvolgente Dogtooth di Yorgos Lanthimos – nel quale, tra l’altro, Nikou faceva l’aiuto regista.
Come nell’opera del suo maestro, si possono individuare con facilità tematiche e suggestioni narrative ricorrenti a questo filone che si è sempre ben guardato dal definirsi corrente unitaria. Su tutti, c’è l’esperienza umana usata come metafora sociale e in secondo luogo politica, la delineazione di un contesto narrativo straniante che si estende a riflessione sulla vita individuale prima e collettiva poi. Se in Dogtooth l’isolamento di una famiglia abbozzava uno sguardo critico sui totalitarismi e sulla tirannia dei media, in Apples, la vicenda di un uomo tra i tanti si incastona in una storia senza storia, che prende in causa alcune disfunzionalità tipiche del nostro tempo.
Oltre a ciò, sono diverse le influenze di un’eco di Lanthimos: la finzione all’interno della narrazione, la messa in questione dei significati, il cinismo e la laconicità dei dialoghi, l’assenza e l’isolamento dei personaggi, l’asetticità della messa in scena e via dicendo. Nonostante questo, va sottolineato come Nikou si presenti comunque come una voce nuova e originale nel panorama autoriale europeo. Il suo approccio alla scrittura è intimista e riesce a camminare in equilibrio tra il tragico e il comico, tra quotidianità ed epocalità.
Giocando con toni assurdi e surreali, il giovane cineasta greco, restituisce un senso di inquietudine attuale, senza stravaccarsi su sfoggi disfattisti e arresi. Il suo uso del mezzo è trasparente, più affine al rigore di quello di Alexandros Avranas (Miss Violence) che allo sguardo sghembo e disturbante del suo maestro. La sua regia pedina da vicino questo antieroe senza passato e lascia fuori fuoco tutto il resto, riuscendo a creare un ponte dialettico tra la storia e il linguaggio cinematografico con cui sceglie di raccontarla. La macchina da presa è intransigente e fissa negli interni ma non rinuncia ad agitarsi con il protagonista quando piccole schegge di vita sembrano porlo in contatto con altri corpi umani. Infine, il formato in 4:3 (altro ammiccamento analogico) incastona il volto di Aris e traspone in fuoricampo laterale quell’assenza, quel senso di perdita passata e di indefinitezza futura.
Sintonizzando con raffinatezza forma e contenuto, Apples riesce quindi a tratteggiare con un rigore minimalista e a tratti ironico un futuro in cui il tempo è diventato orizzontale e l’uomo non ha più traiettorie; un tempo in cui quegli oggetti che potrebbero agganciarci ai nostri ricordi non significano più nulla e in cui il nostro album fotografico ha solo noi come soggetti. È un tempo che, Nikou è bravo a raccontare senza sensazionalismi, scavando alla radice di quella rimozione, di quel tempo concavo che non parla più, elevando la vicenda intima a storia di un mondo che continua a darsi le spalle, forse perché non riesce a guardarsi indietro. O forse perché, colpevole o orfano, non vuole più.
Nel mezzo di una pandemia globale che causa un’improvvisa amnesia, Aris, un uomo di mezza età, si ritrova coinvolto in un programma di recupero pensato per aiutare i pazienti che non sono stati reclamati da nessuno a costruirsi una nuova identità. Aris svolge i compiti che gli vengono prescritti quotidianamente su delle audiocassette, in modo da potersi creare dei nuovi ricordi e documentarli con una macchina fotografica; torna a una vita normale e incontra Anna, a sua volta inserita in un programma di recupero.