In una delle scene più celebri di A qualcuno piace caldo, Marilyn si sta esibendo nel numero musicale I Wanna Be Loved By You. All’improvviso si blocca, lo sguardo basso e le mani sul volto, mentre la canzone prosegue e capiamo di non essere nel film di Billy Wilder, ma sul set del film. Anche la musica si interrompe quando Marilyn urla contro il regista, rinfacciandogli una battuta del copione («Jell-O on springs», «gelatina sulle molle», sono le parole allusive con cui la descrive il personaggio di Jack Lemmon vedendola camminare). Subito dopo, Marilyn si graffia con le unghie il viso, come se volesse strapparsi via la pelle. Anzi, è Norma Jeane che tenta di strappare via Marilyn da sé.
È uno dei momenti più potenti e significativi di Blonde di Andrew Dominik, tra i film più discussi dell’anno, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e poi approdato su Netflix. Non un biopic tradizionale, ma un film allucinato su Marilyn vista da dentro.
Alla base c’è il tema del doppio, certo. Norma Jeane e Marilyn: dove termina una e comincia l’altra. Però Dominik non si limita a questo, affonda il bisturi nel cuore dell’icona. E ne estrae fuori un film spiazzante sul cinema e sull’immagine, e sul suo potere manipolatorio. Nell’epoca dell’immagine, quella in cui viviamo e che Marilyn aveva vissuto, all’ennesima potenza, con sessant’anni di anticipo, Blonde inchioda l’immagine alla sua incapacità di rappresentare il reale.
Marilyn è una creatura del cinema, ma con cui Norma Jeane condivide il medesimo corpo nella vita. Può distaccarsene talvolta solo sullo schermo, ritrovando sé stessa nella recitazione, come quando interpreta la problematica Nell nel dramma La tua bocca brucia, mentre nella vita tutti la guardano come Marilyn, l’icona.
Dice di non essere una star e subito dopo ammette di non essere nemmeno bionda, ma è la bionda più famosa al mondo e di tutti i tempi. Da bambina, grida di non essere orfana, ma la madre, schizofrenica, dopo aver tentato di annegarla, non la riconosce più. Il padre è una foto appesa alla parete. Di un uomo che forse non è neppure il suo vero padre. Dalla gigantografia della diva lungo la strada alle foto di nudo usate per ricattarla, Marilyn è un’immagine. “The most electrifying sight in the world”, come viene presentata nel film Niagara.
Norma Jeane non è Marilyn, ma al tempo stesso lo è. Tale conflitto pervade tutto il film ed è sottolineato anche dall’uso in chiave ossimorica delle sue hit più famose: Every Baby Needs a Da-Da-Daddy risuona appena prima che un produttore la violenti nel suo studio; Diamonds Are a Girl's Best Friend segna la prima consacrazione di Marilyn e contemporaneamente il rifiuto da parte di Norma Jeane di quel modello femminile da lei incarnato.
La regia di Dominik oscilla dal bianco e nero al colore, il formato si allarga e si restringe, nella vana ricerca di una verità che l’immagine non può catturare. In questo caleidoscopio impazzito che mescola vita, sogno e cinema, i flash dei fotografi sono come spari di pistola, i volti si deformano, quello di Arthur Miller in una scena appare improvvisamente sfocato. Le stelle in cielo diventano spermatozoi, anche se la stella Marilyn non riesce ad avere figli. E in fondo cos’è quel feto in CGI se non l’ennesima immagine impossibile, quella di un essere che non vedrà mai la luce, un’altra identità negata? Proprio le scene degli aborti e dei dialoghi tra Marilyn e il feto parlante sono tra quelle che hanno suscitato maggiori polemiche. Per fortuna che esiste ancora un’idea di cinema in grado di scandalizzare, che ci mostra anche ciò che non vorremmo vedere.
Nel film di Dominik, Marilyn è certamente offesa, abusata, ferita, spesso in lacrime. Ma ha anche il coraggio orgoglioso di sfidare gli studios, portando avanti la relazione con i figli di Charlie Chaplin e di Edward G. Robinson, pretendendo lo stesso compenso di Jane Russell per il film di cui sono protagoniste («Io prendo 5.000 $ e lei 100.000 $? E io faccio la bionda in Gli uomini preferiscono le bionde…»), volendo trasferirsi a New York per studiare all'Actors Studio. E ha il coraggio disperato di credere ancora in un amore che non ha mai avuto e non troverà, né con Joe DiMaggio né con Arthur Miller. Seppur in modo diverso, entrambi, anche loro, la idealizzano: uno la considera una moglie-trofeo, l’altro rivede in lei la “sua” Magda.
Marilyn, a cui dà corpo e anima una straordinaria Ana de Armas, non è una vittima dell’accanimento del regista, ma una donna oppressa dal sistema che l’ha resa immagine e sex symbol. Dominik ci ricorda che il cinema può essere un grosso equivoco: altrimenti come sarebbe stato possibile girare una delle migliori commedie di sempre, A qualcuno piace caldo, nonostante le condizioni di Marilyn sul set?
Blonde mette in luce il lato oscuro di Hollywood come aveva fatto Mulholland Drive, a cui si lega anche per la dimensione onirica, evidente sin dall’incipit a tinte horror, che tra le fiamme e la cenere dell’incendio del Griffith Park di Los Angeles fa emergere i primi traumi della protagonista.
L’attacco all’iconografia del sogno americano si spinge pure oltre, colpendo il mito del Presidente Kennedy, per decenni rimasto intoccabile. È il momento più umiliante per Marilyn, trascinata come “un pezzo di carne” e consumata come un servizio in camera, prima di precipitare nell’incubo angosciante della parte finale, quando il tratto lynchiano del film si estremizza, e realtà e finzione non sono più distinguibili («It's just a crazy dream», ripete Marilyn in uno stato allucinatorio causato dall’abuso di barbiturici).
Nella doppia immagine di Marilyn distesa a letto, una esanime e l’altra abbracciata al cuscino con sguardo ammiccante in camera (immagine ispirata, come altre, da una vera fotografia dell’attrice, in quel caso scattata solo sei mesi prima della sua tragica morte), si condensa tutto il film e il suo mistero insolvibile: chi era davvero Marilyn? E chi Norma Jeane?
Tra le note struggenti della colonna sonora di Nick Cave e Warren Ellis, la cinepresa indietreggia, si abbassa ai piedi del letto, smettendo di inquadrarla: è l’ultima (e l’unica) immagine possibile di un film impossibile su Marilyn Monroe.
Tratto dal romanzo di successo di Joyce Carol Oates, Blonde ripercorre audacemente la vita di una delle icone intramontabili di Hollywood, Marilyn Monroe. Dalla sua infanzia precaria come Norma Jeane, fino alla sua ascesa alla fama e agli intrecci sentimentali, Blonde confonde i confini tra realtà e finzione per esplorare la crescente divisione tra il suo io pubblico e quello privato.