Se nel 1992 i titoli di testa di Candyman - Terrore dietro lo specchio inquadravano la metropoli di giorno, perpendicolarmente dall’alto, al contrario quelli di Nia DaCosta mostrano il cielo notturno e i tetti degli edifici dal basso, dopo aver ribaltato i cartelli iniziali come se questi fossero riflessi, appunto, in uno specchio. Il senso dell’operazione patrocinata da Jordan Peele (produttore e co-sceneggiatore) è già tutto qui: un sequel che è innanzitutto rilettura speculare del prototipo. Anzi, un doppio, più che mai coerente con la poetica dell’autore di Scappa - Get Out e Noi. Quasi trent’anni dopo il film di Bernard Rose, il punto di vista si è ribaltato: non più la rielaborazione del senso di colpa di una società bianca sull’orlo del collasso, ma la rivendicazione di una rabbia che trova nel Candyman la sua valvola di sfogo.
Fuori dal ghetto, fuori dal Cabrini Green (il complesso di case popolari all’interno delle quali si è alimentata la leggenda metropolitana dell’uomo-uncino). La comunità afroamericana di oggi ha lasciato alle spalle la povertà e l’emarginazione e si è integrata nel sistema, diventandone ingranaggio. Così è per Anthony McCoy, il bambino salvato da Virginia Madsen nel primo film, artista che lavora per le gallerie della Chicago bene grazie all’intercessione della compagna: gli ambienti squallidi hanno lasciato il posto agli appartamenti di lusso, e nel tempo anche la metropoli sembra aver subito una metamorfosi nella fisionomia e nei colori rimuovendo i murales e i graffiti poveri di tre decenni prima.
Lo sguardo di Nia DaCosta racconta una realtà che ha cambiato forma e personaggi, esattamente come il suo film: sia sequel che reboot, rimuovendo dalla memoria i due seguiti del 1995 e del 1999 (piuttosto trascurabili) secondo quella tendenza già sperimentata dall’Halloween di David Gordon Green e che di fatto sta portando il concetto di multiverso narrativo anche al di fuori della produzione supereroistica. Il risultato è tanto rabbioso quanto urgente e contemporaneo, nonostante alcune perplessità: la maledizione del Candyman diventa eredità di sangue che appesta il corpo (l’infezione cronenberghiana che parte dalla mano del protagonista e si espande un poco alla volta), per risvegliare le coscienze dei fratelli neri e metterli in guardia da qualsiasi integrazione subordinata alle concessioni dell’uomo bianco.
Come da prassi per Peele, la metafora, la militanza e la dimensione politica non potrebbero essere più esplicite, e si rimpiange un poco l’immediatezza – semplice, dinamitarda e innanzitutto visiva – di Bernard Rose, che sapeva aggredire la coscienza dello spettatore senza ricorrere a tanti giri di parole. Appesantito da una scrittura non sempre scorrevole e da qualche richiamo posticcio al Black Lives Matter (le riprese sono iniziate molti mesi prima dei fatti del maggio 2020), oltre che dall’ombra di un giustizialismo un po’ didascalico che non sembra voler considerare fino in fondo la complessità del reale (i poliziotti bianchi ovviamente sono tutti cattivissimi), il nuovo Candyman è quindi un ibrido tra il manifesto politico a senso unico e la rilettura in chiave semiotica del film originale. A uscirne maggiormente a testa alta però è proprio Nia DaCosta, che già sembra aver capito che ogni immagine nasconde il suo doppio; e che soltanto attraverso essa la leggenda può essere tramandata per continuare a vivere, cambiando continuamente pelle.
Sequel dell'omonimo film del 1992. A Chicago nel quartiere Cabrini-Green, un tempo zona degradata della città e ora location "in", vive Anthony un artista talentuoso sempre in cerca di ispirazione per le sue opere. La leggenda di Candyman, oscura presenza che uccide brutalmente chi lo evoca dopo aver pronunciato cinque volte il suo nome in uno specchio, affascina Anthony che decide di capire se esista davvero. Ma Candyman è fin troppo reale e sta cercando un sostituto che prenda il suo posto, come nuovo spirito vendicatore.