La bellezza di Estranei, il profondo senso d’empatia che genera nei confronti del suo protagonista Adam (uno sceneggiatore quarantenne di Londra), risiede probabilmente nell’estrema coerenza narrativa e visiva con cui Andrew Haigh ha tradotto le pagine dell’omonimo romanzo dello scrittore giapponese Taichi Yamada.
Tutto il film del regista inglese sta racchiuso nella testa di un uomo (interpretato da Andrew Scott) incapace di entrare in contatto con il mondo; un estraneo, per l’appunto, che è prima di tutto uno spettatore: della sua città che osserva dall’alto e da lontano; dell’edificio in cui abita solo e dal quale nella prima scena è costretto a uscire; della sua stessa vita, e in particolare del suo passato, che vive e al tempo stesso osserva in sequenze dal contenuto onirico dolcemente realistico.
Da un punto di vista visivo, Estranei è uno dei pochi film che ha provato a reinterpretare l’intuizione bergmaniana del dialogo indifferenziato tra passato e presente e tra vivi e morti (quei meravigliosi passaggi fluidi della realtà nell’immaginazione e del presente nel passato di Il posto delle fragole), creando una possibile prossimità fisica tra Adam e i fantasmi dei suoi affetti. Il gioco di fuoco e profondità di campo nella prima apparizione del padre, il quale si mostra da subito una presenza familiare e insieme perturbante, è una soluzione di regia di straordinaria sensibilità: a colpire non è soltanto la capacità di mostrare l’effimera consistenza di un sogno, o di un’illusione, ma l’ordinarietà del lavoro onirico del protagonista, come se i suoi viaggi alla periferia di Londra, verso la casa dove è cresciuto negli anni ’80 e dove ha vissuto il trauma che ne condiziona l'esistenza, fossero un loop al quale è impossibile sottrarsi. Come le canzoni che costellano il film, The Power of Love dei Frankie Goes to Hollywood o Always on My Mind dei Pet Shop Boys.
Estranei è la storia di una mente interrotta, di un uomo segnato dal dolore e dal silenzio (per non aver mai fatto coming out, per non aver mai raccontato della morte dei genitori) che scava nel suo mondo e immagina impossibili dialoghi con sé stesso e la propria controparte onirica. Un padre e una madre perduti (gli stupefacenti Jamie Bell e Claire Foy), un amante mai avuto (Paul Mescal). Adam risponde anche alle domande che gli vengono poste (come siamo morti?, ad esempio), ma le risposte che trova (vedendo cose che gli altri non possono vedere…) sono solo per sé. Nel film non c’è dialogo, non c’è uscita. L’incapacità del protagonista di elaborare il lutto, di far sapere agli altri la sua omosessualità, di venire a patti con un male da sempre piantato alla bocca dello stomaco, lo intrappolano in una terra desolata.
Adam però è uno scrittore, reagisce all’impasse esistenziale con un atto creativo, ma ogni sforzo di trasformare la sua storia in racconto (sta scrivendo una sceneggiatura a partire dai suoi ricordi) lo riporta al punto di partenza. L’incontro con il vicino Harry, che gli fa conoscere il piacere dell’amore, della confidenza, dell’incontro con l’altro (cosa che Haigh sa fare in maniera mirabile fin da Weekend), non fa che aumentare in realtà la distanza dal mondo. Quando Adam prova a far incontrare il compagno e i genitori (è sogno, immaginazione, realtà, follia?), quelli che incontra sono sguardi silenziosi, una casa che non si apre, un mondo chiuso a confronto con un altro che non può (o non vuole) comunicare. L’universo bergmaniano di Haigh si fa allora addirittura lynchano, senza paura di scivolare in un possibile horror della mente.
Estranei, del resto, non considera l’idea della guarigione o del superamento, perché la realtà del giorno e del presente, nonostante l’alba su cui si apre, non è mai presa in considerazione. Tutto il film è immerso in uno stato ipnagogico di veglia, di premorte o post-vita. Forzando la mano, è come una creazione di Gondry, fantasiosa ma in fondo afasica, e virata su toni vittimisti (cosa che Haigh già faceva in Charley Thompson). E se un limite ce l’ha, è proprio in certe soluzioni visive (come ad esempio la sequenza troppo lunga dello stordimento da droghe in discoteca) non all’altezza dei passaggi migliori.
Più che a un bardo, come potrebbe far pensare la somiglianza del film a recenti operazioni simili (Bardo, la cronaca falsa di alcune verità di Iñárritu, il romanzo Lincoln nel bardo di George Saunders), il mondo di Adam ricorda piuttosto una versione in minore del pianeta Solaris: un luogo dove la memoria si materializza e la fantasia prova a emendare la coscienza dai suoi errori. Nei suoi pensieri Adam trova l’amore, inventa colpe e assoluzioni, e solo lì, in una realtà sfasata che né la scrittura né l’immaginazione riescono a interrompere, la sua vita riesce – come unico, possibile atto d'umanità e creazione – ad accoglierne un’altra fra le sue braccia.
A Londra, in un grande palazzo alla periferia della città, lo sceneggiatore Adam incontra il vicino Harry (Paul Mescal). Dopo un iniziale rifiuto di Adam, i due iniziano a frequentarsi. Immerso nei pensieri sul suo passato e sul ricordo dei genitori scomparsi, Adam trova finalmente la serenità e l'amore in Harry. Ma il passato preme e Adam non si libererà facilmente dei suoi fantasmi.