Non è la prima volta che un'opera cinematografica viene sottratta dalle mani di un autore: da Ėjzenštejn a Peckinpah, passando per Stroheim e Welles (solo per citare i nomi più noti), la storia del cinema conta un numero sterminato di episodi simili. Né è la prima volta che accade a un cineasta come Schrader: l'ultimo caso risale a dieci anni fa, quando il regista-sceneggiatore fu licenziato dalla lavorazione di Dominion: Prequel to the Exorcist, sostituito dal più convenzionale Renny Harlin. E una volta che Schrader poté riprendere il progetto lasciato interrotto, il risultato non riuscì a trovare un'uscita in sala finendo per entrare nella già folta casistica di titoli “invisibili” della sua filmografia, fortuitamente reperibili in home video o sul web, da Witch Hunt – Caccia alle streghe a Adam Resurrected, passando per Touch, Le due verità, The Walker.
Viceversa, Il nemico invisibile ha conosciuto sorte anche più umiliante: nonostante screenplay e direzione siano rimasti in mano all'autore, senza che questi fosse disturbato nel proprio lavoro, la produzione ha manomesso l'opera una volta ultimata, rimaneggiandola, stravolgendone profondamente l'assetto narrativo e rendendola simile a un qualunque blockbuster di genere spy, provvisto di battuta eponima ad effetto («Al mondo ci sono due tipi di uomini: gli uomini d'azione e poi tutti gli altri»).
Pur presente, il profilo psicologico dei personaggi è schiacciato da un intreccio action, che in numerosi passaggi sembra essere l'aspetto dominante del film, risultando farraginoso (la parentesi sentimentale tra il protagonista e una cronista romena, sua antica fiamma) e finanche incomprensibile: complice la presenza di un Nicolas Cage sempre monoespressivo, ma dalla fisionomia più allucinata qui che in altre occasioni, lo spettatore assiste a un prodotto che sembra firmato da un Michael Bay più compresso. E le diciture in sovrimpressione inerenti le location, da Bucarest al Kenya, rimembrano la toponomastica in stile Indiana Jones, e dunque un cineasta, come Schrader, figlio della New Hollywood e autore dello spionistico Munich, quello Spielberg con cui il regista di Grand Rapids si trovò in disaccordo durante la stesura di Incontri ravvicinati del terzo tipo, anch'esso ruotante su una presenza intoccabile (e quindi invisibile) agli occhi di scienziati e servizi segreti.
C'è da comprendere il motivo per cui Il nemico invisibile sia un prodotto che, uscito in sala (aspetto ormai raro, considerando l'ultima produzione schraderiana), ha pressoché scontentato tutti, persino i più accesi estimatori. E se è vero che un certo cinema appare già invecchiato e superato, non meno vero è che anche una banale spy story, zeppa di difetti e di lacune, dalle troppe incongruenze e dai non meno vistosi tempi morti, paradossalmente sia interpretabile come un testo da manuale: anch'esso un parto inclassificabile, eppure, all'interno dell'opera schraderiana, di aritmetica precisione nel proprio calcolo.
Il nemico invisibile indicato nel titolo, tradotto ad uso e discrezione del mercato italiano, è un'entità misteriosa – un ápeiron, insegnava Anassimandro – che risiede nella paranoia del protagonista, del male che reca dentro, della sete di vendetta ad ogni costo che sin dall'inizio ne fa un'icona morta. Come già per il Wade-Nick Nolte di Affliction, o per il Bob Crane-Greg Kinnear di Auto Focus, lo spettro dell'agente della CIA Evan Lake è il suo trascorso. Ma a differenza di Wade, dubbi e ossessioni che attanagliano Evan risultano fondati nello scoprire, prima di andare fino in fondo, che il nemico, sua ombra e seconda pelle, è ancora vivo.
La filosofia di un esteta come Schrader – persona colta e raffinata, indagatrice di ogni più residuo lato trascendente oltre l'immagine – trapela anche da un prodotto che il pubblico meno esigente, insieme ad alcuni critici autorevoli, boccerebbero senza appello. Ma tale politique, in un'epoca in cui anche Michael Mann è impossibilitato a incontrare il seguito di un tempo, suona come un anacronismo difficilmente collocabile. E verrebbe da riutilizzare le parole di Roberto Manassero a proposito dell'ultimo Baumbach, quando afferma che è un apologo sul tempo. Anche Il nemico invisibile lo è, giacché lavoro di un film maker ineludibilmente ancorato a un'etica, un'estetica, un'immagine (di un cinema) che non si può più comprendere.
A ciò si accosta la volontà, irrinunciabile in Schrader, di narrare una storia, la stessa fede verso un cinema “classico", nel senso etimologico del termine, progressivamente scomparso: il confronto tra nemici – ambedue malati, opposti aspetti di una medesima moneta – riporta alla mente il genere western (si pensi all'ultimo personaggio da John Wayne interpretato, Il pistolero di Siegel). Parafrasando l'amico Samuele Sestieri, i corpi principali del film – abitati, manovrati, governati da virus inestirpabili – svelano tutti i patetismi, le debolezze, la caducità di ogni moderno cowboy; e da sempre il fordiano Sentieri selvaggi è una delle dichiarate matrici intertestuali di Schrader e altri colleghi della generazione dei Movie Brats. Come da sempre l'opera dell'ex calvinista è una fusione di western e noir che non trascura i luoghi canonici a lui cari, dalla menomazione del corpo (l'orecchio di Lake mutilato dal tronchese di Banir) al confronto vis-à-vis tra gli avversari che si trasla in un allucinato psicodramma: la demenza senile dell'agente proietta quest'ultimo al passato, e lo mostra ostaggio sotto tortura come nell'incipit (l'eco va ai ricordi alterati di Wade nel citato Affliction e alle violenze subite nell'infanzia dal padre), impedendogli di compiere subito la sospirata vendetta. Né al Nemico invisibile manca l'ingrediente della maschera, che permette a Evan di agire in incognito nel ruolo del medico romeno da cui l'antagonista acquista le medicine, tanto meno alla carneficina semi-conclusiva e al sanguinoso regolamento di conti finale – must che Schrader si porta appresso da Taxi Driver e da Rolling Thunder.
Si può storcere il naso sul fatto che dietro un assunto spionistico, equiparabile a innumerevoli altri, emerga uno sguardo reazionario che esalta il Partito Repubblicano come unica soluzione possibile, e la riprova, alquanto impudica, è la frecciata del protagonista verso Obama. E se Schrader non è mai stato un democratico, essendo la sua filmografia sovente costellata di superomistiche figure, nell'ossessione di Evan di scovare il nemico – corrispettivo di un Paese post-undici settembre che non fa che leccarsi le ferite – è possibile un parallelo col recente (ed eccessivamente dibattuto) American Sniper di Eastwood: il nemico invisibile, poco importa se buono o cattivo, è il doppio di un identico status, consci che annientare quella natura implica, inevitabile, annientare sé stessi.
Cicatrici dolenti, ferite insaturabili che l'America è costretta a portarsi appresso, in Schrader sono restituite da una diversa e affine concezione della malattia: ancora una volta, due mondi e due concezioni di guerra, non troppo agli antipodi, che confluiscono in un identico sangue. Sebbene dicessero molto meglio i resti di Ground Zero all'esterno di una vetrata, ne La 25ª ora di Spike Lee, volendo guardare oltre la chiave strettamente interpretativa (il termine esatto è trascendere), l'entità invisibile/intoccabile – il fantasma, canonico quid per Schrader come per Eastwood – è lo stesso cineasta. Qualcosa di non (più) perfettamente collocabile (lo è mai stato?) in un clima, un Paese, un cinema ormai troppo profondamente mutati, che condannano l'autore, come l'alter ego infetto di Lake, a un'anacronistica effigie inguaribilmente fedele a un rigoroso ordine, e di conseguenza rifiutata a prescindere. Come accadeva a Mishima.
Invero, ciò non è l'aspetto che maggiormente conta: Dying of the Light – questo il titolo originale del film, “tramonto” – è a modo suo un lavoro esemplificativo, che nasconde il fil rouge di titoli analoghi come fosse l'ideale prosecuzione di un (in)dichiarato trittico, costituito inoltre da Light of Day (La luce del giorno) e da Light Sleeper (Lo spacciatore). Dying of the Light perché una certa tematica è sparita, e non c'è più posto per assunti di tale portata. Tanto vale farli morire in un'operazione commerciale, bella o brutta che sia, ed essere lapidari come la distesa di tombe che invadono lo schermo nell'ultimo fotogramma. Una certa idea di cinema, così come una certa ideologia mostrata sullo schermo, è scomparsa: non è più tempo di eroi.
Il nemico invisibile non fa che proseguire il discorso lasciato in sospeso col non meno controverso e opinabile The Canyons e le sue sale fatiscenti, che lo aprivano, lo attraversavano e siglavano (anche se il risultato era più convincente). Una nuova catarsi ha luogo, quand'anche non sembra fattibile, di fronte a un pubblico di pochi spettatori, tra cui chi scrive, perfino in una multisala: un pubblico incuriosito probabilmente più dalla presenza di Cage che da un impianto retrò, superato, come la mise en scène ferma agli anni Ottanta di The Canyons.
Il nemico invisibile è un film di Schrader anche se si tratta di un film da lui solo “girato”. Un bignami démodé di schemi e pattern tipici del cineasta, assemblati in modo disordinato. Dove il paramedico di Al di là della vita, firmato da Scorsese, prosegue nella propria spiritata missione di “portar fuori la morte”, permeata d'intento benefico quanto inevitabile e coronata dallo spiraglio di una dannazione. Di una morte morale, sancita dallo spettro della giovane paziente che l'uomo non era riuscito a salvare, e riflesso sul volto della donna al cui padre aveva finalmente concesso l'eutanasia. E se in numerose fatiche di Schrader la purificazione era inesistente, ne Il nemico invisibile la missione si ammanta di una luce nuova: la grazia si sublima nell'immolazione in prima persona. Nella morte quale annientamento dell'altro ch'è in noi, della dark inside ch'è (in) sé stessi. Il cerchio, anche stavolta, si direbbe chiuso.
Evan Lake è un agente della CIA ormai in procinto di ritirarsi a causa di una malattia. Non prima però di portare a termine la sua ultima missione.