Nei buoni film tutto torna, negli ottimi no. Qualcosa resta fuori, resiste alle esigenze narrative della conclusione, eccede il senso compiuto. E’ quello che poi, del film, ti rimane dentro, anche a distanza di tempo.
In Fai bei sogni – dall’omonimo best-seller di Gramellini, ma diciamo subito che questo è un film di Bellocchio, pieno, anzi, per chi lo ama, bello pieno delle sue ossessioni – l’eccedenza sta nella immagine finale, che per l’ennesima volta ci riporta al ricordo di un bambino che ha perso la madre e disperatamente ci si aggrappa, ultimo relitto d’infanzia prima di naufragare nella vita adulta.
Se pensiamo che L’ora di religione doveva originariamente chiamarsi Il sorriso di mia madre, capiamo bene cosa Bellocchio abbia trovato nel romanzo di Gramellini: la storia di una resistenza emotiva, di un’ostinazione sentimentale che si fa beffe della crescita, della maturità, del successo professionale.
Sotto questo punto di vista, in Fai bei sogni Bellocchio riprende un discorso già avviato in Vincere, esplorando le forme di un’ossessione emotiva e raccordandole a quelle dell’immaginario popolare, lì cinematografico (l’icona di Mussolini nei cinegiornali Luce), qui televisivo. Le immagini in bianco e nero del piccolo schermo – programmi in voga alla fine degli anni sessanta – diventano la materia prima della memoria, il mastice che compatta i ricordi del protagonista e ne agevola il ritorno al passato, luogo di una felicità che l’improvvisa scomparsa della madre rende di colpo elegiaca, irrecuperabile e per questo perfetta.
Da quel momento, lungo l’infanzia prima e la maturità poi, la vita di Massimo viene raccontata come un percorso di avvicinamento alla verità: gesti di agghiacciante eloquenza (i tuffi sul divano, ad imitazione dei campioni olimpionici visti in tv), incontri di sinistra premonizione (l’imprenditore, il ragazzino a Sarajevo) della rivelazione finale. Come in una maledizione del destino, tutto, nella parabola del giornalista di successo, riporta puntualmente alla condizione del bambino traumatizzato da un evento misterioso e doloroso: quanto più il personaggio procede, negli anni e nella carriera, tanto più incespica nel dramma che ne ha segnato l’infanzia.
Nel momento in cui la verità sulla morte della madre viene finalmente a galla, in apparenza i tasselli di una vita lacerata dal trauma trovano una ricomposizione. Ma alla fine, proprio quando i fantasmi del passato sembrano ormai essere usciti dal film e dal protagonista, Bellocchio rilancia. Nel suo cinema, ho scritto recensendo Sangue del mio sangue, l’immaginazione ha sempre l’ultima parola e inquadratura. E anche in questo ultimo film, proprio un attimo prima che cali il sipario, le lusinghe della immaginazione, nella foggia di un ricordo infantile, hanno la meglio sulle certezze del presente. In Gramellini il titolo rimanda alla frase con cui la madre augurava la buona notte al figlio; in Bellocchio diventa un principio di vita, un imperativo esistenziale, un antidoto alle miserie della vita ad occhi aperti.
E' la storia di una difficile ricerca della verità e allo stesso tempo della paura di scoprirla. La mattina del 31 dicembre 1969, Massimo, nove anni appena, trova suo padre nel corridoio sorretto da due uomini: sua madre è morta. Massimo cresce e diventa un giornalista. Dopo il rientro dalla Guerra in Bosnia, dove era stato inviato dal suo giornale, incontra Elisa. La vicinanza di Elisa aiuterà Massimo ad affrontare la verità sulla sua infanzia ed il suo passato.